La riforma fiscale che verrà: fra equivoci mediatici e poche certezze

La riforma fiscale che verrà: fra equivoci mediatici e poche certezze

Si torna a parlare di riforma fiscale e ciò non lascia sorpresi. L’idea che si debba lasciare il segno nella storia (tributaria) della Repubblica costituisce una sorta di richiamo incoercibile per tutti gli esecutivi: una sorta di cliché iterativo utile a dimostrare la forza progettuale ed innovativa di una compagine governativa. Tuttavia, ad oggi, di tale presunta riforma fiscale poco o nulla si sa. In questo contesto generale a tratti nebuloso, tuttavia, sembra di scorgere un unico punto fermo: la prefigurata riforma comporterà un intervento sulla progressività del tributo personale per eccellenza vale a dire l’IRPEF. Una modifica incentrata – se bene si intende – sul superamento della tradizionale struttura per scaglioni da sostituirsi con un modulo di progressività continua (il cosiddetto modello alla tedesca). Sin qui quello che di tale ipotizzata riforma fiscale è lecito conoscere. Il resto, invece, è assolutamente opaco e non è agevole comprendere in quale direzione si intenda procedere.

La riforma fiscale ed i suoi limiti strutturali nell’attuale contesto. La forza di un’espressione suggestiva. L’espressione riforma fiscale ha un successo trasversale nella comunicazione politica perché rinvia con immediatezza ad una sorta di mito fondativo o rifondativo (dalla grande riforma degli anni 70 al libro bianco del 1994 e ad altre iniziative similari). V’è tuttavia da intendersi sulle modalità con cui tale parola è impiegata nel lessico comune e soprattutto viene percepita. Nell’immaginario collettivo, infatti, il sostantivo riforma rimanda ad un intervento connotato da una significativa forza modificativa dell’esistente; altrimenti si tratta solo di tax design, ossia di sole modifiche dell’esistente.

Ora, in cosa sia destinata a sostanziarsi l’intervento preannunziato non è dato sapere; ciò che è certo è che una mera modifica della progressività IRPEF (accompagnata da una revisione del sistema delle detrazioni e delle deduzioni) non ha di certo la forza per essere effettivamente considerato un intervento di sistema ma al più una sorta di manutenzione straordinaria. D’altronde, una riforma che sia tale dovrebbe risultare il portato di un’analisi preliminare approfondita e di rilievo e di un dibattito pubblico adeguato e ponderato. Di questa fase (per così dire) di accumulazione di capitale scientifico, invece, non v’è traccia negli attuali frangenti.

V’è dell’altro. Una vaste réforme presuppone una forza politica da parte di chi la propone ed uno spatium deliberandi da parte di chi la deve realizzare; sono presupposti che sembrano totalmente estranei all’attualità. E di qui, quindi, è bene desumere la prima riflessione. Si faccia attenzione ad impiegare l’espressione (mediaticamente affascinante e vagamente poietica) di riforma per annunziare il futuro progetto. Si rischia, infatti, la più classica truffa delle etichette. Quando si parla di riforma fiscale si alimenta l’attesa per una sorta di rivoluzione scientifica; se, di contro, l’obiettivo perseguito è quello di taluni interventi chirurgici (anche di rilievo come possono essere quelli sulla progressività dell’IRPEF o le tax expenditures) è bene essere chiari sin da subito evitando di alimentare equivoci comunicativi che potrebbero dare luogo a cocenti delusioni.

Quel (poco) che si sa della ipotizzata riforma fiscale: la revisione della progressività IRPEF è il vero problema? Come detto, del nucleo della ipotizzata riforma fiscale si sa assai poco. L’unico punto fermo è rappresentato dalla richiamata modifica della progressività dell’IRPEF. Non v’è dubbio che l’enfasi sull’esigenza di realizzare una progressività migliore di quella esistente risenta fortemente del dibattito politico. A fronte della radicale proposta di una flat tax sui redditi personali la risposta viene evidentemente individuata nel possibile miglioramento dell’attuale progressività.

In proposito, tuttavia, occorre essere chiari anche riflettendo sul passato. Una modifica delle aliquote IRPEF ha un appeal infinitamente minore di un intervento incentrato su progetti di flat tax. In termini mediatici e di comunicazione, pertanto, una siffatta riforma è destinata (inevitabilmente) a faticare. Si potrebbe replicare (a ragione) che l’obiettivo della riforma non è così (bassamente) elettorale ma che si intende realizzare (come si dice sovente) un fisco più giusto ed efficiente.

Ma allora se questo è l’obiettivo – vale precisarlo subito – una modifica che abbia ad oggetto solo la progressività IRPEF è una direttrice datata nei presupposti e miope. Datata perché presuppone un primato concettuale e pratico dell’IRPEF che, oggi, non esiste più. L’idea di un tributo generale e progressivo che è alla base, tipicamente, del paradigma cui si conforma la nostra IRPEF è un quid d’antan. Lo è da un punto di vista pratico perché – come dimostrano le stesse statistiche diffuse dal MEF sui reddito 2018 – attualmente oltre 12 milioni di persone fisiche non versano in realtà alcunché a titolo di IRPEF. Lo è poi da un punto di vista concettuale perché (da tempo) gli studiosi si affannano ad evidenziare i limiti intrinseci di questo idealtipo la cui crisi si è andata spiralizzando nell’epoca della globalizzazione per l’avvento dei redditi apolidi e per la progressiva frammentazione della base imponibile IRPEF.

Peraltro, come anticipato, la specifica iniziativa rischia di risultare soprattutto un esercizio miope. Miope perché presuppone che l’IRPEF si applichi effettivamente su di un imponibile onnicomprensivo. In realtà chiunque sa che non è affatto così. L’imponibile IREPF è stato balcanizzato in maniera progressiva e sempre più intensa tant’è che, attualmente, esso è rappresentato per lo più da redditi da lavoro (dipendente ed autonomo fatte salve le forme di imposizione sostitutiva relativa a quest’ultima categoria). La conclusione è che la vigente progressività IRPEF è molto incisiva per chi è titolare di redditi da lavoro e pressoché nulla (ad esempio) per quanti siano titolari di redditi di capitale.

La vera iniquità pertanto non è tanto (o comunque non solo) riconfigurare la progressività IRPEF ma porsi in maniera seria e sistematica il problema di un tributo che dovrebbe essere generale ed invece non lo è e finisce per discriminare in peggio i titolari di redditi da lavoro e talvolta solo taluni di essi. E tale discriminazione avviene non solo ignorando sostanzialmente l’esistenza del nucleo familiare ed il suo impatto sulla fiscalità dei singoli componenti ma anche selezionando (tendenzialmente in peius a parità di imponibile) i lavoratori autonomi rispetto a quelli dipendenti e distorcendo il fenomeno impositivo all’interno della stessa categoria del lavoro autonomo (per effetto dell’esistenza di un regime di imposizione sostitutiva fruibile solo da taluni e non anche da altri). In sintesi, un microsistema che, più ancora che confuso ed irrazionale, appare assolutamente entropico e non governato.

Ma di tutto ciò ci si occuperà in occasione della annunziata riforma fiscale? Non è dato sapere e medio tempore si sente discutere di modello tedesco e nulla più. Ed invece ci si dovrebbe interrogare sull’allocazione del prelievo tributario nel suo complesso e sull’opportunità di rimodulare l’imposizione personale in profondità non disdegnando i tributi reali ed interrogandosi tanto sul peso specifico che la fiscalità diretta dovrebbe avere rispetto a quella sui consumi quanto sul ruolo incentivante dell’evasione che un imponibile angusto e molto inciso dalla progressività ha dimostrato di potere avere. Ma a chi interessa tutto ciò? Le scelte politiche al riguardo languono.

I problemi sul tavolo per la riforma fiscale che verrà. Come spesso accade è agevole esprimersi in un’ottica destruens mentre è più difficile formulare qualche pensiero positivo. Un tentativo, tuttavia, s’impone cercando di fornire taluni spunti di meditazione. Il presupposto di queste riflessioni è una presa d’attoVeicolare l’idea di una grande riforma fiscale con spazi cronologici e politici come quelli attuali ha poco senso e costituisce un esercizio di comunicazione decettivo. È bene, quindi, non alimentare equivoci soprattutto alla luce dell’attuale situazione del bilancio pubblico che impedisce una sensibile contrazione della pressione fiscale.

Se l’obiettivo è quello della manutenzione migliorativa dell’esistente è opportuno dirlo con chiarezza. La collettività confusa dalle sirene della comunicazione che dovesse comprendere ex post che il grande sforzo innovativo si è risolto (in concreto) nello spostamento (per effetto della manovra sulla progressività IREPF) di poche centinaia/migliaia di euro da una posizione individuale ad un’altra ne risulterebbe inevitabilmente delusa e vivrebbe la vaste réforme senza trasporto o (peggio) come un inganno (è presumibile, infatti, che chi dovesse esserne avvantaggiato non vedrebbe la propria posizione individuale migliorare in modo realmente significativo mentre chi ne dovesse subire gli effetti deteriori si sentirebbe colpito da un ulteriore incremento della pressione fiscale che già ora risulta elevata).

In breve se di riforma reale e non di mero design si deve trattare v’è l’esigenza di dare maggiore respiro strategico alla manovra. Non necessariamente bisogna cambiare tutto ma di certo occorre interrogarsi sulle direttrici del mutamento che si intende realizzare (se del caso anche in maniera modulare). Talune iniziative, peraltro, appaiono alla portata ed a costo zero nonché molto efficaci. Un esempio su tutti: una reale forma di codificazione tributaria. Come stigmatizzato in maniera reiterata dagli studiosi, infatti, il vigente sistema fiscale è connotato da un’elefantiasi e confusione normativa che rende molto difficile (se non impossibile) la razionalizzazione dell’esistente.

Il carattere ipertrofico della legislazione tributaria (alimentata dal miraggio della disposizione che dovrebbe risultare autoapplicativa e che, invece, dà spesso luogo ad una spiralizzazione di provvedimenti attuativi e di chiarimenti interpretativi) ha generato un sistema gassoso. Una razionalizzazione normativa dell’esistente (una vera e propria forma di codificazione tributaria omogenea) risulterebbe quindi una misura assai efficace e molto opportuna per gli operatori.

Ma si potrebbe senz’altro osare di più. E qui – spiace dirlo – l’ipotesi che l’intervento di sistema possa risolversi nella sola riformulazione della progressività dell’IREPF mostra tutti i suoi limiti. Il vero problema dell’IRPEF infatti è – come detto – la sua (evidenziata) perdita di generalità che ne fa un tributo dall’imponibile ristretto (essenzialmente i redditi da lavoro e non sempre tutti) e per di più soggetto a progressività molto spinta; il che costituisce un forte incentivo all’evasione (per chi ne ha la possibilità in quanto non assoggettato a forme di tassazione alla fonte).

A ciò si aggiunge una composizione della platea dei contribuenti italiani del tutto peculiare con un elevato numero (in rapporto a quanto avviene in altri Stati) di microautonomi (il sempre spesso menzionato popolo delle partite IVA). Questo è il milieu con cui ci si confronta e rispetto al quale approntare soluzioni. Speculare solo di un modello astratto di progressività dell’IREPF significa di fatto non cogliere il reale perimetro del problema (ed anche le attese dei contribuenti). Il sistema economico, infatti, non è più quello ravvisabile allorquando è stata immaginata quella che sarebbe stata poi la riforma degli anni 70; non v’è più quel rilievo preponderante dei datori di lavoro – sostituti d’imposta i quali con il meccanismo delle ritenute alla fonte facevano gran parte dell’attività per conto dell’Erario; oggi, al contrario, la presenza nel nostro sistema fiscale di microautonomi è assolutamente significativa sia in termini quantitativi che qualitativi e di ciò occorre tenere conto. Per tali autonomi un lavoro di cesello sul modello di progressività IRPEF (a cui, invece, sono senz’altro più sensibili i lavoratori dipendenti) rischia di apparire un esercizio ozioso (o comunque non fondamentale) e che, per l’Erario, non risolve invece il vero problema: ossia il tasso (elevato) di evasione fiscale.

A tutto ciò occorre pensare quando si pone mano alla riforma fiscale. Quali sono le risposte che si immaginano per tale platea amplissima di contribuenti che: i) se si comporta correttamente è oggi esposta ad un prelievo IRPEF assai significativo e di norma più intenso di quello a cui sono soggetti i lavoratori dipendenti e, ancora di più, i meri rentiers; e ii) se invece evade è in grado di realizzare in house una progressività IRPEF a proprio uso e consumo così patologicamente efficace che le implicazioni del modello alla tedesca rischiano di apparire semplici speculazioni da studiosi. Non si tratta di una estremizzazione brutale ma di un nodo da affrontare in modo serio perché presuppone faglie fondamentali del nostro sistema tributario, come:

  • la generalità dell’IRPEF e le deroghe alla onnicomprensività dell’imponibile del tributo (con l’ovvia considerazione che in prospettiva quanto più generale risulterà l’imposta ed ampio il relativo imponibile tanto più l’IRPEF riuscirà ad essere veramente equa);
  • la funzione dell’IRPEF quale tributo personale e la sua perdurante centralità nel sistema tributario e ciò alla luce dell’esigenza di catturare in maniera differente (forse in modo più frammentato ma al tempo stesso più semplice) le manifestazioni di capacità contributiva individuale. Il che pone immediatamente capo alla necessità di riflettere in termini generali sul riparto fra tributi diretti ed indiretti, sull’opportunità di garantire una maggiore realità al fenomeno impositivo, sull’eventualità di incrementare la tassazione patrimoniale alleggerendo la pressione fiscale sui redditi);
  • il ruolo stesso dell’imposta personale sul reddito nell’attuale struttura economica nazionale che non può prescindere (o, in ogni caso, sarebbe poco avveduto che prescindesse) dal tenere conto del fatto che l’IRPEF di quanti ricevono un reddito pesantemente intermediato da un sostituto d’imposta presenta tratti concreti differenti dall’IRPEF propria dei menzionati microautonomi (basti pensare all’urticante argomento della possibilità di evasione);
  • il ruolo fisiologicamente disincentivante di una estrema progressività dell’IRPEF (per di più su di un imponibile quantitativamente ridotto) sul livello di produzione individuale e collettivo e, viceversa, la natura ostativa che una siffatta caratteristica dispiega in modo naturale rispetto alla tax compliance dei contribuenti (soprattutto in un sistema, come quello italiano, contraddistinto dal popolo delle partite IVA).

Ebbene di tutto ciò (e non è poco) il dibattito sulla riforma dell’IRPEF che verrà sembra disinteressarsi preferendo focalizzarsi su simulazioni di curve e su ipotesi di algoritmi. Se riforma deve essere pertanto s’impone un cambio di passo ed anche velocemente. Altrimenti è bene seminare studiare. Si dirà che rischia di essere una forma di benaltrismo e che un intervento mirato è pur sempre meglio del nulla. E’ opinabile. L’atto del tassare come quello del punire costituiscono le massime espressioni dell’esercizio del potere pubblico e concorrono, quindi, a conformare le relazioni fra i consociati e l’autorità pubblica. Sbagliare un intervento normativo o (ancora di più) darvi corso in maniera umorale e sfilacciata per inseguire l’opinione pubblica non è mai una opzione felice e priva di conseguenze. In questi ambiti normativi vale quanto mai l’antico motto festina lente (affrettati lentamente).

Marco Di Siena – leoniblog.it

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