In Spagna non ha vinto nessuno

In Spagna non ha vinto nessuno

Per la quarta volta in altrettanti anni (dal dicembre 2015) la Spagna è andata al voto per rinnovare il suo Parlamento, e per la quarta volta consecutiva nessun partito è riuscito ad ottenere la maggioranza. Tuttavia, sarebbe sbagliato dire che tutto è come prima: da questo voto sono comunque emersi una serie di spunti da non sottovalutare, e che possono aiutarci a capire come evolverà lo scenario politico spagnolo nei prossimi mesi.

Una partecipazione in calo (ma non troppo)

Come spesso avviene, quando un’elezione non produce un risultato netto e si ritorna alle urne a stretto giro (ne avevamo parlato citando proprio il caso della Spagna) la partecipazione ne risente. Già nel 2016, sei mesi dopo le elezioni senza vincitori del dicembre 2015, l’affluenza era notevolmente calata. Questa volta, in Spagna si è votato per un’elezione nazionale per per ben tre volte in poco più di sei mesi (dopo le legislative del 28 aprile) c’erano state le europee del 26 maggio), e questo ha certamente contribuito alla diminuzione della partecipazione che si è registrata ieri. Ma non si è trattato di un crollo: rispetto ad aprile l’affluenza è calata di poco meno di 2 punti (69,9% contro 71,8%). Segno, questo, che gli elettori spagnoli che hanno scelto di restare a casa come forma di protesta verso l’inconcludenza dei partiti sono stati solo una piccola minoranza.

I socialisti arrivano primi, ma non vincono (di nuovo)

Come già accaduto in aprile, il primo partito è quello socialista (PSOE) guidato dal premier uscente Pedro Sanchez. Con il 28% dei voti, Sanchez ha sostanzialmente replicato il risultato di aprile (28,7%) ma non ha centrato il suo obiettivo: non solo perché ha perso seggi invece di guadagnarne (120 contro 123), ma perché le condizioni per formare un’alleanza di governo non sono cambiate, ed anzi ora non ha più alibi. Alla sua sinistra, Podemos perde leggermente terreno rispetto ad aprile (35 seggi) ma meno del previsto, nonostante abbia subito una scissione, quella di Más Páis (MP), che i sondaggi della vigilia avevano piuttosto sovrastimato.

Le destre avanzano, ma non basta

Vincitori morali di queste elezioni possono certamente dirsi i partiti di centrodestra: i Popolari (PP) guidati dal giovane Pablo Casado tornano sopra il 20% e crescono di oltre 20 seggi, mentre i nazionalisti di Vox si consacrano come terza forza politica in Spagna, superando il 14% e più che raddoppiando i loro seggi alla Camera (da 24 a 52). Nonostante il risultato positivo di PP e Vox, però, le possibilità che si formi una maggioranza di centrodestra sono pressoché nulle: tutto ciò che i due partiti hanno guadagnato – sia in termini di voti che di seggi – è stato praticamente compensato dal crollo dei liberali di Ciudadanos, che ad aprile erano arrivati ad insidiare i Popolari come seconda forza politica e che oggi invece si ritrovano drasticamente ridimensionati, sotto il 7% e con soli 10 seggi. Il “modello Andalusia” ossia la coalizione tra PP, Vox e Ciudadanos, si ferma così a 150 seggi, molto lontano dalla soglia di 176.

Rebus governo

Le opzioni per una maggioranza non sono molte: una “gran coalicion” PSOE-PP supererebbe agevolmente i 176 seggi, ma è un’eventualità decisamente improbabile, visti i precedenti storici e la cultura politica prevalente in Spagna (dove i partiti sono poco inclini a formare coalizioni post-elettorali, e cercano di formare governi monocolore). Entrambe le “coalizioni” – termine improprio, poiché ciascun partito si presenta per sé – sia quella di sinistra (PSOE-UP-MP) che quella di destra (PP-Vox-Cs) non arriverebbero nemmeno a 160 seggi. Entrambe sono da escludere, quindi? Gli spagnoli sono condannati a tornare al voto ad oltranza?

In realtà, in Spagna non è strettamente necessaria la maggioranza assoluta dei seggi per formare un governo: se non la ottiene alla prima votazione, al premier incaricato basta avere più voti a favore che contro nella seconda votazione. Un ruolo chiave lo giocano quindi le astensioni “strategiche”: nel 2016, proprio grazie a numerose astensioni (68), il governo Rajoy poté insediarsi nonostante i voti favorevoli (PP + Cs) si fermassero a quota 170. Potrebbe ripetersi oggi un simile scenario? In teoria sì, se ci fosse un accordo PSOE-UP-MP e le astensioni di tutti i partiti regionalisti. In quel caso, i loro voti favorevoli sarebbero sufficienti a far partire un governo di sinistra: i voti contrari di PP, Vox e Cs si fermerebbero a 150. Ma mettere d’accordo Sanchez e Iglesias (leader di Podemos) e ottenere l’astensione dei regionalisti non sarà affatto facile – come già si è visto quest’anno.

Una Spagna sempre più frammentata

Le variazioni, anche piuttosto importanti, che si sono registrate rispetto ad aprile non ridisegnano i rapporti di forza tra destra e sinistra: cambiano però gli equilibri all’interno delle diverse aree, con Vox che soppianta i Ciudadanos – ridotti quasi all’irrilevanza – nel ruolo obbligato di primo interlocutore per i Popolari, e con il PSOE che si riconferma il principale partito progressista ma senza essere riuscito a intaccare lo zoccolo duro di Podemos. La Spagna ha ormai abbandonato il bipolarismo che aveva caratterizzato il suo sistema politico per i primi decenni della sua vita democratica, ma ora la frammentazione comincia ad emergere maggiormente anche sul piano territoriale: i partiti regionalisti, invece di soffrire l’emergere dei nuovi soggetti politici nazionali che hanno minato le basi del bipolarismo (prima Podemos e Ciudadanos, e oggi anche Vox), si riaffermano come punti fermi per gli elettori delle Comunità.

La questione avrà un risvolto non indifferente sul piano politico nazionale: per cercare di formare un governo, sarà decisivo il ruolo dei deputati delle forze regionaliste, primi tra tutti quegli indipendentisti catalani che hanno causato la rottura del primo governo Sanchez all’inizio di quest’anno. Con 13 seggi andati ad ERC (sinistra catalana) e gli 8 a JuntsxCat (nazionalisti catalani), sarà molto difficile archiviare le istanze indipendentiste della Catalogna, tornate a emergere con forza nelle ultime settimane. Per reazione, come già avvenuto in queste elezioni, potrebbero rafforzarsi ulteriormente proprio quei partiti più favorevoli al centralismo, ossia i Popolari e la stessa Vox.

E il Senato?

Anche se non è decisivo come la Camera, poiché non vota la fiducia al governo, in Spagna alle elezioni si elegge anche il Senato, o meglio la sua maggior parte (208 senatori su 265). Grazie al sistema di voto – che assegna 4 seggi a ciascuna provincia indipendentemente dalla sua popolazione – ad aprile il PSOE era riuscito ad ottenere una netta maggioranza di 123 seggi, contro i 54 dei Popolari. Ieri la situazione si è decisamente riequilibrata, con i socialisti che hanno perso la maggioranza assoluta scendendo a quota 92, e il PP ad insidiarli con 83 seggi. Un ulteriore elemento di difficoltà per Sanchez – o chi per lui: non è da escludere infatti un suo passo indietro nelle prossime settimane – se dovesse infine riuscire a formare un governo.

Lezioni per l’Italia: cosa possiamo imparare dagli spagnoli

Infine, ma questo riguarda il nostro Paese, c’è da fare ancora una volta i complimenti agli spagnoli: non solo per l’organizzazione efficientissima, grazie alla quale lo scrutinio era praticamente concluso (ben oltr il 90%) dopo solo due ore ­– impossibile non pensare a certe “maratone” nostrane, che spesso sono ancora lontane dalla conclusione all’alba del giorno successivo; ma anche per la grande precisione delle indagini demoscopiche diffuse subito dopo la chiusura dei seggi, che hanno correttamente stimato (sia pure entro margini di errore del tutto accettabili) la percentuale e il numero di seggi di ciascun partito in una situazione non facile: sia per la grande mobilità del sistema politico (una variabile ormai comune a quasi tutte le democrazie contemporanee) sia per il complicato sistema di assegnazione dei seggi, che si effettua su base provinciale e non nazionale. (agi.it)

Redazione

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