Sulla libertà e sulla paura

Sulla libertà e sulla paura

Con l’emanazione dell’ultimo DPCM dell’11 marzo scorso il Paese ha subito, ed allo stesso tempo accettato, la più grande limitazione delle libertà individuali che si sia mai vista in un ordinamento democratico.Alle scuole, palestre, cinema e locali notturni chiusi si è aggiunto il divieto di apertura per bar, ristoranti e per la gran parte dei negozi al dettaglio trasformando, di fatto, le città in un deserto. Non solo, ma la cosa che più fa riflettere e che irrompe con un semplice decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, senza quindi alcun vaglio da parte del Parlamento, sono i vincoli imposti alla libertà di movimento delle persone, non più libere di spostarsi sull’intero territorio nazionale – secondo il principio fin qui ritenuto sacro dell’articolo 16 della Costituzione – ma costrette a farlo solo in casi di “comprovata necessità”. Dovendo sopportare controlli di forze di polizia (o addirittura dell’Esercito il cui coinvolgimento con poteri di polizia è invocato dai più) ad ogni uscita, anche solitaria, e costretti a spiegare motivi e ragioni di quello spostamento. Con la prefettura che dà mandato a Polizia e Carabinieri di controllare anche chi passeggia per fare la spesa ed incrociare i dati con quelli dell’abitazione tollerando spostamenti fino ad 1-2 chilometri da casa.

“Da oggi il coprifuoco avrà inizio alle ore 22:30. Nessuna tolleranza dopo tale ora. Avrà termine alle ore 5.” E ancora “L’ora grave che volge impone a ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatti di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti, e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente”.

Sembra un nuovo DPCM dei giorni nostri ed anzi per certi aspetti un allentamento delle vigenti disposizioni, sembra uno dei discorsi serali cui il Presidente del Consiglio Conte ci ha abituato in questi giorni difficili. E invece no.

Faceva più caldo in quelle ore perché non siamo ai giorni nostri, non siamo in questo marzo sospeso che sembra agosto per le sue strade vuote e gli uffici a ranghi ridotti. Per leggere quelle parole sui manifesti in strada, così simili a quelli che vediamo oggi affissi sul COVID-19, dobbiamo tornare a fine luglio del 1943, il 26 per la precisione, il giorno dopo l’arresto di Benito Mussolini avvenuto intorno alle ore 17 del 25 Luglio. A quando il Comandante di Corpo d’Armata di Roma impone il coprifuoco dal tramonto all’alba, trent’anni dopo l’ultimo conosciuto nel Paese, e il Maresciallo Badoglio dichiara in sostanza lo stato d’assedio. Il divieto di circolazione dei civili, “eccezion fatta per i sacerdoti, medici, levatrici, appartenenti a società di assistenza sanitaria nell’esercizio delle rispettive funzioni. Fino a che perdurerà il servizio notturno dei treni in arrivo e in partenza dalle stazioni ferroviarie, i civili che vi si rechino o ne provengano dovranno essere muniti di regolare biglietto ferroviario. I pubblici esercizi di ogni categoria, i teatri di varietà, i cinematografi, i locali sportivi e similari resteranno chiusi nelle ore del coprifuoco. E’ fatto tassativo e permanente divieto di riunioni in pubblico di più di tre persone, di tenere, anche in locali chiusi, adunate, manifestazioni, conferenze e simili”. Per finire ricordando che “tutti i cittadini che abbiano necessità di uscire di casa dovranno portare seco i documenti di identità, con fotografia, con l’obbligo di esibirli a qualsiasi richiesta degli agenti dell’ordine e dei comandanti di truppa”.

Questo avveniva tra luglio ed agosto del 1943, con un Paese in guerra e con truppe nemiche sul territorio nazionale. A noi, oggi, non basta neanche portare il documento d’identità ma dobbiamo giustificare ogni singolo spostamento che facciamo fuori da casa tramite modulo da firmare davanti agli agenti di pubblica sicurezza. Con conseguenze penali in caso di uscita non abbastanza degna di essere giustificata. Non dal tramonto all’alba ma nell’arco intero delle nostre lunghe giornate. La severità di quelle ordinanze, unita ovviamente alla situazione in cui l’Italia versava dopo anni di guerra, servì al popolo a capire che la libertà che immaginavano di aver ritrovato quel tardo pomeriggio del 25 luglio era in realtà ancora lontana. La severità delle disposizioni di oggi, invece, sembra trovare molti meno ostacoli.

Si dirà che le norme imposte oggi sono a tutela del bene comune. Ma fino a dove può spingersi lo Stato nella difesa del bene comune? fino a soffocare ogni singolo individuo? Si tratta, mi rendo conto, di un tema che da secoli fa discutere e la via scelta in questi giorni da BoJo è la rappresentazione plastica di due diverse visioni, di due approcci di governo delle persone completamente opposti.

“Qual è allora il giusto limite alla sovranità dell’individuo su se stesso? Dove comincia l’autorità della società? Quanto della vita umana spetta all’individualità e quanto alla società?” Le domande che si poneva John Stuart Mill in On liberty nel 1859 sono sostanzialmente le stesse di oggi dopo oltre centosessant’anni.

L’equilibrio è sottile ma la storia insegna ed è piena di esempi di giacobinismi nati e prosperati in nome del bene comune e non dovrebbe essere mai dimenticato che, in questi casi, l’idea di benessere collettivo non è stata altro che un’arma in mano ad alcuni gruppi per soffocare il bene individuale ed esercitare il proprio arbitrio. Certo anche attraverso decisioni e leggi prese nel rispetto dell’ordine democratico, perché non esiste una società che non tenda naturalmente, proprio attraverso il diritto, ad autolegittimare il proprio dominio.

Qui niente è stato fatto senza seguire la legge, sia chiaro. Anche la Costituzione prevede la possibilità di limitare i movimenti delle persone per motivi di salute e, per quel che riguarda le chiusure forzate, l’articolo 41 sull’iniziativa economica privata prevede eccezioni quando c’è di mezzo la sicurezza collettiva. Ma quello che stupisce è che la maggioranza delle persone non viva questo aspetto, legato alle norme emergenziali, con la gravità che meriterebbe. Sembra invece essersi già abituata a tutto questo e, spinta dalla paura, reclama anzi misure sempre più restrittive. Tanto da aprire una nuova frontiera, fino ad oggi ritenuta un limite invalicabile, verso il sostanziale annullamento della normativa sulla privacy – ricordate i fiumi di inchiostro spesi per il GDPR? – in nome della necessità di “tracciare” movimenti e relazioni di tutti i positivi al COVID-19 per frenarne la diffusione. Incontri, spostamenti e vite messe a disposizione, analizzate, studiate ed indagate. Senza contare che l’insieme di questi obblighi, volti a controllare ogni singolo aspetto della nostra vita privata, non fanno altro che indebolire il senso di comunità deresponsabilizzando gli individui in un gigantesco effetto Peltzman che, alla fine, potremmo pagare duramente.

Si dirà che è un momento particolare e come tale provvisorio, finirà e torneremo quello che eravamo, anzi migliori. Eppure un provvedimento dello Stato entra in vigore in una notte ma non altrettanto facilmente si dissolve. Di norme speciali introdotte e restate in vigore per anni è piena la storia della Repubblica. La Legge Reale è sopravvissuta ad un referendum abrogativo e rimasta così in vigore per oltre dieci anni. Anche il Decreto Legge n. 625 del 1979, adottato d’urgenza per “la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”, divenne l’anno dopo a tutti gli effetti legge dello Stato. Così come la Legge n. 401 del 1989 adottata per far fronte ad una escalation di violenza negli stadi che introdusse il dispositivo del DASPO – una limitazione delle libertà personali, che può essere comminata anche a 14enni, decisa dal questore senza passare da nessun grado di giudizio – è tutt’oggi applicata nonostante diversi dubbi di costituzionalità che impegnano la dottrina.

Ogni intervento del legislatore nella sfera delle libertà individuali rappresenta l’abbattimento di un argine, qualunque ne sia la ragione e la natura. Anche quando la marea si sarà apparentemente ritirata. Ricostruire argini non è, infatti, mai facile perché la marea ha memoria del punto fin dove si è spinta e tende naturalmente a raggiungerlo, andando ancora oltre.

C’è un bel libro, Istituzioni di Architettura statica e idraulica di Nicola Cavalieri San Bertolo, vissuto a cavallo tra il ’700 e l’800, nel quale la ricostruzione di un argine è decritta in maniera quasi poetica ma riuscendo così a rappresentare tutta la fatica che occorre nel fermare la corrente: “la maggiore difficoltà consiste nel chiudere l’ultimo varco rimasto alle acque, o sia nel dare la stretta alla rotta. Acciocchè l’impresa riesca a buon fine è necessario che questa sia l’opera di pochi istanti, onde tutt’ad un tratto la corrente venga arrestata da tale ostacolo che la sua forza non valga ad espugnare”.

Ecco, è chiaro che i provvedimenti di questi giorni, per quanto giustificati da innumerevoli considerazioni di natura sanitaria, hanno abbattuto diversi argini ed attraverso queste falle sta passando e rischia ancora di passare di tutto, trovando nella paura che la gente ha di un nemico invisibile un alleato formidabile.

E invece, pur nella paura, dovremmo mantenere e coltivare il dubbio. Non un dubbio fine a se stesso ma quel dubbio cartesiano che, con rigore metodologico, serve alla ricerca della verità. Il dubbio Cartesio lo mette infatti al centro del suo discorso sul metodo partendo da un principio fondamentale per il quale “la prima regola è stata di non accettare una cosa per vera finché non la riconoscessi per tale senza neppure un dubbio”.

In queste ore forzate di #iorestoacasa potremmo provare a chiederci se ogni singola cessione di libertà che abbiamo accettato in queste ore fosse necessaria. Se fosse davvero inevitabile l’obbligo e non la responsabilità. Se la corsa verso il paternalismo è quello che vogliamo o se invece avremmo preferito essere trattati da cittadini. Se siamo veramente disposti a tutto in nome della lotta al virus e, se così fosse, se siamo poi anche pronti a ricostruire immediatamente i vecchi argini – “onde tutt’ad un tratto la corrente venga arrestata da tale ostacolo che la sua forza non valga ad espugnare” – ed anzi ad innalzarne di nuovi spingendo la marea un po’ più in là, più lontana dalle nostre vite private perché abbiamo visto come la vicinanza di quelle onde possa arrivare a togliere il respiro, costringendoci a cantare dai balconi e a girare con il lasciapassare nelle tasche.

Risponde Serena Sileoni

Mantenere il dubbio, specie in momenti di strappo della quotidianità, è essenziale anche se difficile, immersi come siamo a capire come gestire le nostre giornate e a confrontarci con sentimenti di cui avremmo volentieri continuato a fare a meno.

Coltivare un critico spirito di diffidenza verso il potere politico, specie quando si fa coercitivo delle libertà che viviamo in maniera scontata, è ancora più importante, e il contributo qui sopra pubblicato spiega bene il perché.

Non c’è un nemico umano, oggi. Non ci sono disgrazie create da sogni di dominio e predominio, come in guerra, ma alcuni metodi per fronteggiare la situazione, ha ragione Abatecola, echeggiano quelli usati in tempi di guerra, a partire dal disinteresse per le forme e le procedure più opportune. I paragoni, tuttavia, si fermano lì: qui si combatte insieme contro una catastrofe biologica, non su trincee nemiche. Personalmente, credo che né i paragoni con situazioni di guerra né l’idea che vi sia unanime consenso (ammesso che vi sia) sui modi di fronteggiare la nostra situazione possano essere da sé soli fondamento per derogare allo statuto delle libertà. A queste considerazioni, che possono trovarci più o meno tolleranti verso manifestazioni di potere altrimenti intollerabili, deve necessariamente aggiungersi un impegno evidente da parte del governo di dare uno spazio temporale definito alle misure intraprese. E’, insomma, nella temporaneità delle misure che, ancor più che nelle finalità, potrà risiedere la garanzia di un giusto ripristino, al giusto momento. L’impressione che ho è che, se questo impegno sarà più agevolmente mantenuto per le misure eccezionali relative alla “chiusura”, essendo parossistica la situazione che stiamo vivendo, sarà più difficile tornare indietro per le misure relative alla riapertura. Tornando all’efficacissimo esempio delle maree, esistono maree più evidenti e altre meno. Se l’esperienza e il passato insegnano qualcosa, vedremo bene il ritirarsi dell’alta marea che ha sommerso la libertà di movimento, di commercio, di circolazione. Dovremo invece essere molto, molto più attenti al ritrarsi della marea sulle nostre libertà economiche, non meno essenziali a costruire una società di uomini liberi e responsabili.

Risponde Sergio Belardinelli

In questi giorni di quarantena stiamo imparando un mucchio di cose: ad esempio, che i nostri doveri rispetto alla comunità potrebbero crescere a dismisura, che gli arresti domiciliari non sono affatto una passeggiata, che il focolare domestico è meno caldo di quanto immaginassimo e, per alcuni di noi che avrei detto privilegiati ma non ne sono più tanto sicuro, perfino quanta poca differenza ci sia tra questa vita di quarantena e quella che conducevamo prima che arrivasse il virus. Quanto al bell’articolo di Marco Abatecola, esso rafforza una convinzione-preoccupazione che ho da tanto tempo, e cioè che ormai per la salute e la sicurezza siamo pronti a tutto. La facilità con la quale abbiamo accettato di essere chiusi in casa “per legge”, non per responsabilità (in nome della quale forse non lo avremmo fatto, ed è un’ulteriore aggravante) ne è soltanto l’ultima prova. Abbiamo già di fatto accettato i controlli capillari dei nostri conti correnti, delle nostre conversazioni telefoniche e oggi ci piacerebbe che venissero controllati anche i nostri spostamenti, visto che questo serve alla sicurezza e alla salute. Una vera manna per il potere, un po’ meno per le nostre libertà.

Risponde Franco Debenedetti

Nel 1943 “Tutti a casa”. Nel 2020 “Tutti in casa”.
Non si tiene conto del fatto che siamo noi ad esigere le misure di contenimento, Non ci fossero io sarei molto più preoccupato, per il presente e per il futuro.
E sono abbastanza certo che appena sarò finita ci riapproprieremo delle nostre libertà.
Tu dirai: ma si è costituito un precedente. Ma neanche della pandemia ci sono precedenti.
L’unica cosa di cui ci sono precedenti è la morte.

Marco Abatecola risponde a Franco Debenedetti

Vero. a me preoccupa il fatto che spesso siamo noi ad esigerle in maniera quasi scomposta ed in misura sempre più restrittiva. Non dico siano sbagliate, mi chiedo soltanto se tutti – anche i vari cittadini che in queste ore si trasformano in delatori – siano consapevoli delle importanti cessioni di libertà che stiamo facendo, seppur in maniera temporanea e straordinaria.
Forse sì, ci riapproprieremo delle nostre libertà, il sogno che coltivo è quello però che questa situazione ci permetta di comprenderne ancor meglio il valore e possa spingerci a difenderne altre di libertà cui invece rinunciamo ogni giorno, anche in periodi non emergenziali.
Un caro saluto e grazie per l’autorevole intervento!
Marco

Risponde Carlo Lottieri

Nella tradizione liberale, il diritto ha una funzione cruciale ed è lì a impedirci di aggredire il prossimo: derubarlo, truffarlo, ucciderlo e – certamente – metterne a rischio la vita. La decisione di recludere entro le proprie mura tutta una popolazione si può giustificare, allora, se l’atto di uscire di casa e incontrare gli amici configura realmente una qualche aggressione al prossimo. In altri termini, se mette a rischio la sua esistenza.

La domanda da porsi è quindi la seguente: quali sono i comportamenti che – come avviene quando guidiamo a 120 all’ora in un centro cittadino – minacciano la vita di altri e più in generale i loro diritti? Nell’ora drammatica che stiamo sperimentando è difendibile la tesi secondo cui uscire di casa, tenere aperto il proprio negozio, incontrare la propria fidanzata e fare jogging sarebbero comportamenti criminali, dato che finirebbero per fare ammalare altre persone, mettendone a rischio perfino la vita?

Sulle questioni scientifiche connesse alla pericolosità e alle tecniche di contrasto del coronavirus il filosofo del diritto (come l’economista, il politologo o l’urbanista) non ha molto da dire. Può solo constatare che gli stessi virologi spesso appaiono divisi: valutano diversamente la pericolosità del Covid-19 e delineano pure strategie di contrasto assai discordanti. Oltre a ciò, egli deve prendere atto che l’età media di quanti muoiono avendo contratto il coronavirus – il che non vuol dire, necessariamente, che muoiono a causa del coronavirus – è intorno agli 80 anni. Per il resto, però, si è nella nebbia.

È da qui che dobbiamo partire: abbiamo a che fare con un’ignoranza fondamentale, poiché non sappiamo bene cosa sia questo morbo e come lo si debba sconfiggere. Non ci è nemmeno chiaro quanto sia più pericoloso delle consuete influenze che, in Italia, portano ogni anno alla morte tra le 8 e le 10 mila persone.

Senza entrare nelle diatribe di carattere epidemiologico, gli studiosi di scienze umane possono però facilmente riconoscere alcuni tratti già visti in passato e che ora tornano alla luce.

In particolare, oggi abbiamo a che fare con il classico binomio, che Marco Abatecola nel suo intervento ha giustamente evocato, che collega il potere e la paura. Il cittadino Giuseppe Conte ha potuto, con una sua decisione d’autorità (un semplice Dpcm…), rinchiuderci tutti entro le mura di casa perché è alla testa di un’entità, lo Stato moderno, che fin dai tempi di Thomas Hobbes s’incarica di vincere il nostro terrore di fronte alla morte. Per il filosofo inglese, gli uomini devono rinunciare a tutti i loro diritti al fine di conservarsi in vita.

La classica risposta liberale a Hobbes, lo sappiamo bene, è che una volta che abbiamo consegnato allo Stato le nostre libertà, è molto facile che si perda la vita stessa. Negli anni Trenta e Quaranta, quando l’intero mondo era squassato dalla violenza di regimi totalitari e autoritari, si tornò a usare l’immagine del Leviatano proprio per descrivere questo potere statale che imprigiona e uccide, e arriva perfino a pianificare genocidi.

Nel tempo odierno la paura è nella gente comune, che non vuole morire (forse neppure accetta l’idea della morte) e quindi è disposta a consegnarsi totalmente al potere. Ma la paura è pure nei governanti, che rischiano tantissimo e per questo sono razionalmente indotti a essere quanto mai prudenti: gareggiando nel proporre misure sempre più massimaliste, volte a restringere le libertà individuali. E questo perché essi sanno che un’azione inutile in più non causerà mai le critiche che possono venire da una qualunque omissione.

La società è dominata dalla paura e domanda quindi di essere segregata. A sua volta, il potere è dominato dal terrore e, quindi, interviene di continuo e con misure emergenziali.

Certamente, il carattere radicale degli interventi adottati è anche figlio di una cultura che ha rigettato ogni considerazione sui costi e sulle opportunità. Da decenni, lo Stato “fa il bene” (elargisce servizi di ogni tipo in forma gratuita) riscuotendo un grande consenso perché nessuno si chiede quanti posti di lavoro vengano distrutti quando le risorse dei contribuenti vengono usate per salvare un’azienda che sta per fallire. Siamo tutti dominati dal modello della manna che scende dal cielo.

Oggi il Potere che ci ha recluso evidenzia le opportunità in tema di salute (speriamo abbia ragione) ed è per questo che accettiamo senza reagire la confisca delle nostre libertà. Dovremmo anche iniziare a riflettere, però, su quali saranno i costi – pure in vite umane! – della distruzione del tessuto civile, della rete degli scambi e delle relazioni, del mondo produttivo. Potremmo trovarci presto senza le risorse necessarie a curare chi ha 50 anni e un tumore, chi ha 40 anni ed è in dialisi, chi ha 30 anni ed è diabetico.

L’ignoranza che ci caratterizza dinanzi a una sfida del tutto nuova ha calato una nebbia dinanzi a noi. In questa confusione, le logiche del potere (difese da chi vuole governarci, ma anche da chi desidera solo di essere governato) non sembrano trovare molte resistenze di fronte a loro.

Risponde Michele Fiorini

Il contributo di Carlo Lottieri mi consente di restringere il mio a poche righe, sul presupposto di una mia completa adesione a quanto da lui scritto.
Ciò che sta accadendo è una potente conferma di una delle citazioni tra le più ripetute (e abusate) e tra le più belle: quella attribuita a Pericle da Tucidide sul coraggio, la libertà e la felicità*. E il punto da cui voglio partire è il seguente: la paura indebolisce la libertà, fino a farla venir meno; ma ciò è vero per l’individuo “governato” in modo diverso dall’individuo “governante”.

Per quest’ultimo, la paura è comunque un male, se diventa criterio decisionale. Più di tutto, è un male la paura dettata non dalla difficoltà della situazione ma dagli effetti che l’eventuale errore avrà sul futuro del governante stesso. Chi governa deve fare ciò che ritiene giusto senza indecisioni, sapendo che la sua scommessa può portarlo alla fine del suo ruolo. Anzi, quante volte si è visto un governante vincente e coraggioso poi non premiato dalla scelte del popolo? In un’ottica libertaria, l’esistenza di un governante con ampi poteri è il problema per eccellenza. Ma alla fine, quali che siano i suoi poteri, è sempre peggio avere un governante indeciso e codardo, rispetto a uno coraggioso e capace di assumersi grandi responsabilità. La nostra battaglia è quella di togliergli potere, non di fargli esercitare male e vigliaccamente il potere che ha.

Quello che mi interessa di più, peraltro, è la paura del cittadino governato. Certo, quando è insensata, infondata, esagerata, perché nessuno si nasconde che la paura possa essere sana e benefica, se produce ragionata prudenza.

Quando la paura del cittadino non si traduce in sensata prudenza, lì sta ciò che dobbiamo temere di più perché è tale paura che consente al governante di acquisire un potere eccessivo e di mantenerlo anche se lo utilizza male. Ecco che, quindi, il punto da discutere diventa chiaro: quando e perché la paura del cittadino è maligna e sbagliata, in generale e nel caso che stiamo vivendo?

La mia risposta è la seguente: quando il cittadino non ha il coraggio di esercitare i propri diritti individuali e di fare quanto necessario per contrastarne le violazioni. Ciò vale per i diritti assoluti che non sta certo alle leggi creare e attribuire ma vale altresì per i diritti che nascono in conseguenza di atti normativi di uno stato pur ostile e sopraffattore.

In questi giorni, ciò che ho visto è la presa di coscienza di molti, più o meno ingenui, della debolezza della loro e nostra libertà. Persone adulte e raziocinanti timorose come bambini di fronte ad agenti di polizia che chiaramente abusavano del proprio ruolo. O incapaci di valutare criticamente i provvedimenti del Governo, del Presidente del Consiglio e di quello della Repubblica. Ciò per vari motivi che qui non si possono esaminare ma soprattutto per l’incapacità di ordinare le priorità: la libertà è più importante della salute fisica, questo è il punto di partenza di ogni ragionamento sul nostro caso e della battaglia di libertà che ne consegue! Il che non significa svalutare il bene della salute fisica – sono un padre innamorato dei sui tre figli, non c’è bisogno di dir altro sul punto – ma aver chiaro cosa si può sacrificare e in che misura.

E, allora, le perplessità sulle modalità con cui le misure “antivirus” sono state prese vanno manifestate senza timore; il diritto di muoversi, ove non si crei una situazione quasi certamente pericolosa, va esercitato; il diritto di culto, per i credenti, va rivendicato e a sua volta esercitato, perché non può essere un decreto a prevalere sulla Costituzione; il diritto di critica di governanti di ogni livello che si sono contraddetti mille volte nel giro di pochi giorni e che però continuano a comportarsi come avessero tutte le verità chiare nella testa, non va rinunciato e nemmeno represso.

Certo, non tutti sanno esercitare con misura e ragionevolezza i propri diritti, e il rischio è l’eccesso di reazione è l’abuso individualistico. Per questo c’è anche un dovere di esemplarità, in chi per formazione e cultura è capace di equilibrio. Ma solo agendo, e non tacendo, tale equilibrio diventerà un punto di forza per l’affermazione della libertà e per la lotta alla paura.

*«Per gli uomini prodi, infatti, tutto il mondo è tomba e non è solo l’epigrafe incisa sulla stele funebre nel paese loro che li ricorda; ma anche in terra straniera, senza iscrizioni, nell’animo di ognuno vive la memoria della loro grandezza, piuttosto che in un monumento. Ora, dunque, proponetevi di imitarli e, convinti che la felicità sta nella libertà e la libertà nell’indomito coraggio, non fuggite i rischi della guerra.»

Tucidide, Storie, II, 34-36

Risponde Carlo Amenta

Quali rischi, quali pericoli, quali calamità ed emergenze possono davvero giustificare limitazioni della libertà individuale come quelle che stiamo vivendo? E sopratutto: è anche lontanamente pensabile che la straordinaria situazione attuale possa essere prorogata anche solo per un un altro periodo definito? Ha ragione Serena Sileoni quando sottolinea l’importanza della temporaneità di queste misure e mi permetto di aggiungere che neanche un pericolo più grande di quello che sembriamo affrontare può consentire il perdurare dell’attuale misura, generalizzata e invasiva.

Non sono un epidemiologo e, come tanti, mi limito ad ascoltare le diverse campane e a cercare di capire se davvero questo virus possa costituire una minaccia così grave da giustificare queste misure. Credo che, quando il numero dei morti diventa così elevato e il panico comincia a impossessarsi di chi convive in una comunità, sia importante adottare una prospettiva più ampia che consenta di contemperare interessi diversi le cui gerarchie possono e devono mutare in senso dinamico con l’evolversi della situazione. Il numero di morti, rilevante in termini assoluti in questi tempi di pace per larga parte del mondo, impressiona ma la sua misura relativa, in proporzione all’intera popolazione, resta oggi ancora su livelli non allarmanti. Le attuali misure possono essere accettate in ragione della velocità del contagio e della necessità di evitare il collasso del sistema sanitario, appunto in un’ottica emergenziale e, proprio per questo, del tutto temporanea. Non si possono però dimenticare anche le conseguenze di tali misure sul tessuto economico e sociale, conseguenze che rischiano di causare costi sociali ed economici di certo paragonabili, se non superiori, a quelli conseguenti ai livelli relativi di mortalità osservati. E’ necessario, tanto più per chi ha responsabilità di governo, adottare una prospettiva più ampia di quella medico/assistenzale contemperando, insieme al diritto alla salute e alla necessità di ridurre i rischi, anche gli altrettanto rilevanti diritti relativi alle libertà oggi negate, senza le quali la società rischia di pagare conseguenze ben più gravi di quelle immediate causate dal diffondersi di una malattia di cui, come già evidenziato da amici ben più preparati di me, si conosce ancora molto poco. La paura della morte, l’incapacità di tollerare i rischi, il panico che travolge anche le nozioni e le informazioni disponibili sui comportamenti più sicuri, non possono mettere a repentaglio le nostre libertà. Sento parlare di tracciamento indiscriminato da utilizzare per seguire chi potrebbe poi rivelarsi infettio di misure draconiane per chi sta in quarantena, di provvedimenti straordinari per salvaguardare la collettività. Chi oppone dubbi e si permette di discutere tali proposte viene bollato come un ozioso e pignolo difensore della privacy. L’utilizzo di questo termine punta a sminuire una questione che invece riguarda libertà fondamentali che vanno salvaguardate e difese. Sono disponibile ad ascoltare, capire e finanche a tollerare misure specifiche, individuali e temporanee ma pretendo che esse vengano prese nel rispetto di principi e processi che già esistono, senza scorciatoie e nell’ambito di un dibattito serio. La differenza tra una democrazia e una dittatura sta proprio in queste piccole ma fondamentali distinzioni di metodo.

E nel mio piccolo qualunque cosa succeda sarò pronto a salire su un podio improvvisato e, come Winston Churchill, gridare “Ladies of the Empire, I stand for Liberty!

Risponde Giuseppe Portonera

Nel 1949, la Corte suprema degli Stati Uniti, decidendo il caso Terminiello v. City of Chicago, dichiarò incostituzionale, per contrarietà al Primo emendamento, un’ordinanza emessa dalla città di Chicago, che vietava espressioni pubbliche che avrebbero potuto promuovere disordini e caos. Justice Jackson dissentì, ritenendo che l’ordinanza fosse giustificata da imperativi motivi di ordine pubblico, e lo fece – com’era nel suo stile – ricorrendo a un’immagine destinata a essere ricordata per sempre: «There is danger that, if the Court does not temper its doctrinaire logic with a little practical wisdom, it will convert the constitutional Bill of Rights into a suicide pact».

Queste parole mi sono tornate in mente più volte, in momenti in cui sicuri motivi di interesse pubblico hanno imposto un importante sacrificio alle nostre libertà individuali. La Costituzione non è un “patto suicida” e una misura minima di pragmatismo è irrinunciabile, se si vogliono adeguatamente fronteggiare pericoli fuori dall’ordinario. Ciononostante – come ha ben ricordato Marco Abatecola – è fondata la sensazione per cui «i provvedimenti di questi giorni, per quanto giustificati da innumerevoli considerazioni di natura sanitaria, [abbiano] abbattuto diversi argini ed attraverso queste falle [stia] passando e [rischi] ancora di passare di tutto, trovando nella paura che la gente ha di un nemico invisibile un alleato formidabile». E altrettanto fondata è la preoccupazione che, una volta rientrati dalla crisi, alcune di queste misure si convertano da straordinarie a ordinarie: non quelle più evidenti e intollerabili, come il divieto (o quasi) di uscire di casa, ma – magari – quelle più sottili e apparentemente invisibili, come la tracciatura dei nostri movimenti di cui si sta tanto parlando. L’esercizio del dubbio invocato da Abatecola è importante, ed è un invito cui aderisco con vigore: ognuno di noi – con le competenze che ci appartengono, in modo serio e responsabile – deve impegnarsi nell’analisi critica delle decisioni adottate dal Governo.

Per quanto mi riguarda, devo dissentire dal rilievo di Abatecola sul fatto che «Qui niente è stato fatto senza seguire la legge». Non è affatto vero. È, infatti, del tutto inaccettabile che le pesanti restrizioni alle nostre libertà individuali siano state imposte a mezzo di DPCM e non per legge o, perlomeno, atto avente forza di legge (l’inaccettabilità diventa illogicità quando si ricorda che, in Italia, il ricorso alla decretazione d’urgenza è all’ordine del giorno…). C’è un deficit di legalità – come hanno ricordato autorevoli costituzionalisti e penalisti – che deve essere colmato, e immediatamente. Se è vero che la tutela del bene primario della salute giustifica delle restrizioni a beni altrettanto primari, quali la libertà di circolazione e la libertà di impresa, è anche vero che quelle restrizioni non possono essere imposte per fiat governativo, ma devono essere approvate dai rappresentanti democraticamente eletti e responsabili e sottoposti al vaglio delle Corti. Si dirà che, sostanzialmente, poco cambia tra un DPCM e un DL. Forse è così, ma in assenza di alternative percorribili nel breve periodo, le forme del costituzionalismo moderno sono quelle che dobbiamo impiegare per limitare il potere pubblico. Perché – per concludere citando nuovamente Justice Jackson, stavolta in Youngstown co. v Sawyer (1952) – «I am quite unimpressed with the argument that we should affirm possession of [emergency powers] without statute. Such power either has no beginning or it has no end. If it exists, it need submit to no legal restraint. I am not alarmed that it would plunge us straightway into dictatorship, but it is at least a step in that wrong direction».

Risponde Marco Bellandi Giuffrida

I diritti di libertà, i principi e le garanzie costituzionali, in assenza di una base sociale, comprensiva di cittadini e istituzioni, concorde sul fatto che essi siano più importanti di altri valori, altro non sono che un feticcio.
Dopo i nefasti eventi dell’ultima estate in cui decine di migranti, tra cui donne e bambini, sono stati lasciati in mare per giorni, a volte per settimane, a dispetto dei trattati internazionali e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana, questa cosa avrebbe dovuto essere chiara a tutti. Sfortunatamente, oggi ancora si fa fatica a convenire sul punto.
Proviamo a fare qualche esempio tratto dalla situazione emergenziale che stiamo vivendo.

1) Può un atto amministrativo, come un decreto ministeriale, derogare a libertà garantite dalla Costituzione? La risposta, come suggerisce anche il penalista Gian Luigi Gatta, è no. Eppure è quello che sta avvenendo con la serie di dpcm c.d. “Io Resto A Casa”, che a partire dall’otto marzo sono stati emanati dal Presidente del Consiglio. E perché avviene? Perché la base sociale ritiene (a ragione, secondo chi scrive) che in questo momento storico la tutela della salute pubblica, anch’esso principio costituzionale, sia più importante e quindi giustifichi una compressione, per quanto ampia, delle suddette libertà.

Qualcuno potrà rispondermi che esistono delle tutele. Certamente, si potrebbe portare al vaglio della Corte costituzionale il decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 che ha lasciato una così ampia discrezionalità decisionale al Governo. Sennonché alla Corte costituzionale si può accedere esclusivamente in via principale o in via incidentale. Del resto, sfido chiunque a descrivere uno scenario realistico in cui una Regione procedesse ad impugnare quel decreto legge, oppure in un processo ordinario venisse proposta una questione di legittimità a seguito della quale la Corte costituzionale decida per l’incostituzionalità dello stesso entro la giornata del 3 aprile.

Giova altresì ricordare che la Corte costituzionale in passato ha affermato più volte che in situazioni emergenziali la pubblica amministrazione dispone di poteri più ampi rispetto a quanto avvenga ordinariamente (vedasi su tutte, Corte cost. sentenza 2 luglio 1956 n.8). Ma, anche ammettendo che le situazioni emergenziali del passato fossero lontanamente paragonabili a quella che viviamo oggi, quell’affermazione della Corte non fa altro che confermare quanto detto in apertura.

2) Domandiamoci ulteriormente: può il Governo decidere de iure et imperio quali beni d’acquisto rientrino tra quelli c.d. “di prima necessità”, magari includendovi gli articoli per la profumeria ma non anche quelli per la telefonia, e di fatto impedire ai cittadini di uscire di casa per l’acquisto di beni diversi (v. l’interpretazione del decreto fornita sul sito web del Governo, sotto la voce Spostamenti)? La risposta, anche in questo caso, è negativa. Eppure è quello che sta avvenendo con i decreti “Io Resto a Casa”. E perché avviene? Perché la base sociale ritiene (meno ragionevolmente, secondo chi scrive) che in questo momento storico la tutela della salute pubblica giustifichi una decisione arbitraria del Governo su quali beni siano acquistabili e quali invece no. Sulle tutele, vale lo stesso discorso fatto sopra, con una precisazione ulteriore. Questa disposizione, se finisse davanti alla Corte costituzionale chiamata ad operare l’(ormai) classico bilanciamento nella forma dell’oramai consolidato 4–step test di origine europea, cadrebbe sotto la scure del secondo passaggio, mancando di un collegamento razionale tra l’obiettivo perseguito e la misura messa in atto.

3) Potremmo andare avanti ad analizzare le disposizioni entrate in vigore negli ultimi giorni, ma mi si permetta di aggiungere un esempio ulteriore, tratto questa volta da una mera proposta che pure in questi giorni si va facendo. Potrebbe il Governo decidere di procedere al tracciamento e alla mappatura dei dati GPS dei cittadini per individuare gli spostamenti e i contatti delle persone risultate positive al Covid-19, poniamo da oggi fino alla fine di aprile, senza una base legale che garantisca il rispetto degli standard minimi di protezione dei dati personali? No, non potrebbe. Eppure se ne sta già discutendo. Perché? Perché la base sociale ritiene che in questo momento storico la tutela della privacy sia assai meno importante della tutela della salute pubblica. Peraltro trattasi di una falsa dicotomia, giacché l’una cosa non esclude l’altra. Sulle tutele, varrebbe sempre quanto abbiamo detto sopra.

Dagli esempi fatti fino a qui dovremmo ricavare due moniti:

Il primo, come suggerisce da giorni il professor Alberto Mingardi, è quello di non dar mai per scontata alcuna libertà. Quando, finita questa crisi, cominceranno ad essere messi in discussione alcuni diritti (primo tra tutti, vedrete, quello alla libertà di movimento) dovremo farci trovare pronti, come base sociale, a difendere quello che con fatica abbiamo conquistato nel corso dei secoli.

Il secondo, meno immediato ma altrettanto valido, è che uno Stato paternalistico che pretenda di sostituirsi alla coscienza individuale, decidendo in modo conforme agli interessi generali dei cittadini, con la promessa di osservare la cornice di garanzie costituzionali in cui esso è chiamato a muoversi, non è che una fantasia. Soprattutto in situazioni emergenziali. E tralasciamo di ricordare che lo Stato inteso come apparato politico e burocratico, è composto da persone, le quali spesso hanno interessi divergenti da quelli generali.

Alla fine di questa emergenza, forse, dovremmo cominciare a riflettere su quanto abbiamo dato per scontate le libertà fondamentali che, invece, nel corso dei secoli sono state conquistate con grande fatica e dopo lunghe battaglie. La cultura del liberalismo e l’educazione alla libertà sono l’unica via per far sì che, come auspicato da Marco Abatecola, la maggioranza delle persone torni a vivere le limitazioni, legate alle norme emergenziali, con la gravità che meriterebbero.

Risponde Natale D’Amico

Può essere che l’epidemia dilaghi e abbia effetti umani tragici; può essere che invece si fermi da sola, o che gli effetti umani si rivelino molto minori di quanto temuto. La verità è che non lo sappiamo; né noi né gli esperti ai quali ci affidiamo. E neppure siamo in grado di attribuire una probabilità affidabile ai diversi scenari.
E’ invece certo qual è la direzione verso la quale i decisori politici sono spinti dal sistema di incentivi: se “chiudono tutto e tutti” si salvano! Nel caso la cosa vada a finir male possono difendersi dicendo di aver fatto tutto il possibile; nel caso le cose vadano a finir bene, possono sostenere che il merito è delle misure da loro adottate.
Come potremo noi cittadini giudicare – almeno a posteriori – se quella scelta di chiusura è stata giusta? Solo se un Paese fa una scelta diversa e ciò nonostante la cosa finisce bene, o non finisce peggio rispetto ai Paesi che hanno adottato le chiusure.
La prima conclusione da trarre: può darsi che dal punto di vista epidemiologico sarebbe preferibile che le decisioni fossero uniformi. Ma, in carenza di informazioni certe, è bene che le decisioni siano differenziate, almeno fra Paese e Paese, perché solo così potremo sapere se i sacrifici imposti alle nostre libertà sono davvero stati necessari per non nuocere agli altri.
Riusciremo poi a riprenderci le libertà alle quali oggi siamo costretti a rinunciare? Non è scontato. Se continuiamo a ragionare sugli incentivi che muovono i decisori politici, dobbiamo aggiungere a quello prima implicito – mantenere il proprio potere – anche quello volto ad accrescere il medesimo potere.
Una volta sperimentato – nell’emergenza – un accrescimento così straordinario del proprio potere, non v’è dubbio sul fatto che i decisori politici saranno restii a tornare indietro.
A meno che… non tornare indietro metta a rischio il loro obiettivo primario: restare al potere.
Così si configura una sorta di agenda politica per gli amanti della libertà: sentire e far sentire questo accrescimento dello spazio concesso alla decisione politica come un sacrificio, forse necessario, ma costoso e alla lunga insopportabile. Il post di Marco Abatecola mi pare vada nella direzione giusta.

Risponde Riccardo de Caria

Quando ho letto la bella metafora del fiume citata nel post di Abatecola, pensavo che questi la impiegasse in altra direzione: quel che sta accadendo, secondo molti, è proprio l’inserimento dell’ultima, faticosa pietra di una gigantesca opera di contenimento sociale. Il fiume in piena, cioè, potrebbe essere quello delle nostre libertà, arginate con opera costante, sistematica e a suo modo meticolosa nel corso degli anni che ci hanno preceduto. Il coronavirus avrebbe soltanto rappresentato l’occasione perfetta per i governi per piantare “the last nail in the coffin”, l’ultimo chiodo sulla bara di quella vita libera cui eravamo abituati (si stava meglio quando si stava peggio, abbiamo scoperto a nostre spese).
Questa lettura a me non appare per nulla complottistica o ipostatizzante, ma anzi fondata su solidi argomenti di public choice. Ed è quel che mi convince di come quel minuscolo ma gagliardissimo mondo libertario, con cui personalmente mi identifico, ha affrontato ciò su cui ci stiamo interrogando.
Ciò che personalmente mi ha convinto meno, e su cui vorrei spendere qui i miei “due cent” (amicus Plato eccetera), è l’affermazione, espressa nei vari post e dibattiti social da diverse voci per me autorevolissime, per cui ammettere che la soluzione à la Lancet, del lockdown così pervasivo, passasse dal governo, avrebbe comportato un’irrimediabile compromissione della teoria.
Personalmente, sono molto affezionato alla teoria, e non mi spaventa mai il dogmatismo, che per me è e rimane una virtù, quali che ne siano le improbabili conseguenze pratiche. Ma io credo che la teoria resti intatta se anche si è disposti a concedere l’eventualità che – una volta giunti al punto in cui eravamo / siamo giunti in termini di diffusione del contagio – il lockdown potesse essere in fin dei conti la soluzione per cui propendere.
Chiaramente, l’assunto sconta molte ipotesi: se vivessimo in una società libertaria, il problema non si porrebbe; se il governo italiano non avesse inanellato una serie di errori madornali, di cui risponderà alla propria coscienza se non a una ad oggi improbabile Norimberga, con ogni probabilità si sarebbe potuto fare diversamente; se il governo cinese non avesse responsabilità clamorose di tutto questo, tutto questo si sarebbe potuto evitare; se anziché buttare miliardi in Alitalia avessero aumentato la capacità di cura del sistema sanitario, non costringeremmo i medici a scelte tragiche che non dimenticheranno per il resto dei loro giorni; se lo stato non avesse ucciso la responsabilità individuale, la gente starebbe a casa senza bisogno dei militari ad attuare il coprifuoco; e via ipotizzando.
Eppure, le cose sono andate tutte storte e il cigno grigio, come lo ha definito qualcuno, si è materializzato. E ci troviamo dunque in una situazione che invece a me pare comparabile con un atto di guerra dichiarato unilateralmente da un Paese nemico, senza nostra provocazione; o meglio ancora a uno scoppio di attentati di estremismo religioso o politico, che non accennano a smettere.
Ecco, con tutto l’amore per le città volontarie e la speranza di vederle realizzate in vita, sono disposto a non invocare di smantellare l’intelligence o l’esercito proprio all’indomani del manifestarsi parossistico di eventi di questo tipo.
I pericoli evocati in molti interventi sono naturalmente evidentissimi anche a me. Eppure io credo che in gioco non ci sia tanto la salute, ma proprio la vita umana, che – torno al dogmatismo – è e deve rimanere valore supremo, secondo uno dei principi cardine che hanno reso l’occidente cristiano quella cosa di cui siamo ancora così orgogliosi e che vorremmo tutti difendere.
La vita dei vecchi, la vita dei deboli vale più di tutto, e anche se questo governo – il peggiore dei governi possibili –, insieme a quelli che lo hanno preceduto, ha delle pesanti responsabilità nell’aver fatto esplodere il problema in questo modo, una volta che siamo arrivati a questo punto, temo non esistessero alternative.
Senza contare che il santissimo non-aggression principle è assai difficile da far funzionare qui: il tema è assai dibattuto negli sparuti circoli libertari con riguardo al connesso ambito dei vaccini, ma sta di fatto che, quanto meno in un contesto statale, è assai difficile chiamare a rispondere aggressori che rimangono invisibili perché molto spesso inconsapevoli. E dunque la teoria non può non tenerne conto.
È indubbio che sacrificare il PIL potrebbe farci avere perfino più morti domani. Però di per sé non è detto, mentre – e qui sta il punto – le morti incolpevoli sono pressoché certe oggi. In ipotesi, gli italiani potrebbero ravvedersi, potrebbero costringere in tempi brevi il governo a smettere di buttare miliardi in Alitalia e dedicarli invece alla sanità. Non succederà, ma potrebbe. Le morti aggiuntive domani sono quindi altamente probabili, ma non certe. Le morti aggiuntive oggi sono invece sostanzialmente certe. Magari queste ultime non sono così tante. Ma proprio per chi come me è affezionato a dogmi e teoria, ne basterebbe in ipotesi anche una sola, proprio perché la sacralità della vita non ammette eccezioni. Nel famoso esperimento mentale del treno avviato a folle corsa sui binari contro vite innocenti, io credo proprio che azionerei lo scambio se ci fosse tutto il tempo materiale per salvare quelli contro cui reindirizzi il treno, anche se non riescono a spostarsi con le loro forze e anche se spostarli richiede il necessario contributo di persone che ad oggi non sono disposte ad aiutarti.
È appena il caso di ribadire, ancora una volta, che ciò non esime dal più spietato scrutinio, sul piano morale, giuridico e politico, le azioni di chi quel treno l’ha, non certamente lanciato, ma con ogni probabilità fatto accelerare all’impazzata, tagliando sulla sicurezza e riempiendo di alcolici la cabina di comando. Tale scrutinio potrebbe essere posticipato, ma intanto se ne potrebbero anticipare cautelativamente alcune conclusioni, aprendo una crisi di governo che a me pare auspicabile perfino in questo frangente, tanto è negativo il mio giudizio sull’attuale esecutivo.
In definitiva, sono d’accordo che la teoria non vada sacrificata sull’altare della contingenza pratica, e che proprio in questi casi in cui è più difficile si debba difendere quanto ci è più caro. Ma tra quanto ci è più caro ritengo sia necessario annoverare non solo la benedettissima libertà di vivere come ci piace e di lavorare, ma pure una vita che – nelle condizioni in cui ci troviamo – a me pare potrebbe essere quella più sacrificata da una decisione che lasciasse maggiormente libere le persone di danneggiare (spesso inconsapevolmente, e pur indirettamente) degli innocenti.
L’auspicio è che le condizioni cambino presto: la straordinaria ondata di solidarietà privata e la corsa al vaccino potrebbero presto cambiare lo scenario (sempre siano lodati il mercato e il capitalismo). Ma fino ad allora, in casa ci dovremmo restare comunque, e per quanto l’esercito nelle strade e il coprifuoco facciano orrore, non mi pare ci sia purtroppo il tempo che c’è in tante altre occasioni per educare irresponsabili e imbecilli, e per di più è anche particolarmente difficile in questo caso chiamarli a rispondere delle proprie azioni.
Ne usciremo economicamente devastati, e questo anche perché fisco e burocrazia paralizzano quei rapidi adattamenti e reazioni degli operatori economici che pure potrebbero mitigare molto i danni. Dovremo chiedere conto a molti delle proprie azioni e omissioni. Dovremo ricominciare daccapo una serie di sforzi improbi per riguadagnarci quelle libertà che non ci vorranno restituire. Ma se avremo agito per massimizzare il salvataggio di vite umane, specialmente le più deboli, potremo andare a dormire senza essere preda di incubi nelle lunghissime notti che occorreranno per risalire la china delle decine di punti di PIL perso.

Risponde Massimiliano Siddi

In questi giorni di forzata ed apprensiva permanenza domiciliare, dovuta all’infuriare della pandemia che la freddezza scientifica denomina “COVID19”, come già a Carl Schmitt nel segreto della cella (“Ex captivitate salus”), due grandi maestri del passato vengono a farmi visita e ad illuminare il senso di disorientamento che, ancor più da cittadino che da giurista, provo dinanzi agli effetti prodotti dalla normazione emergenziale che sta soffocando in modo rilevante taluni diritti fondamentali che fino ad oggi siamo stati abituati ad immaginare scontati: questi due maestri sono lo stesso Carl Schmitt ed Hans Kelsen.
Qualunque legislazione emergenziale, per l’indubbio “vulnus” che crea ai diritti fondamentali scolpiti nella nostra Costituzione e, sotto il profilo filosofico-politico, allo Stato di diritto nel suo complesso, ha sempre fatto discutere gli interpreti sulla sua compatibilità con i cennati principi. Ma fino ad oggi, almeno nel corso del periodo dell’Italia repubblicana, si è trattato solo, per dirlo con una felice espressione concettuale che mutuo da Thomas Kuhn, di “scienza normale”, di un’ordinaria prova di tenuta del nostro sistema giuridico, periodicamente sottoposto a forti tensioni ed a trazioni derivanti da sconvolgimenti politico sociali (criminalità organizzata terroristica, mafiosa, etc.). Allo stato attuale, invece, la questione è radicalmente differente, ed assai più insidiosa, atteso che il nemico non proviene dalle trincee nascoste ed ipogee dell’antagonismo ideologico, né dalla devianza criminale di matrice economico-sociale, ma pervade, indistintamente, le nostre esistenze, mettendo in serio e generalizzato pericolo l’incolumità personale di tutti, ed indirettamente, in prospettiva, forse addirittura con maggiore virulenza, i livelli di benessere acquisiti. La “scienza” del pregiudizio per l’integrità dell’ordinamento giuridico, da “normale” si fa dunque “straordinaria”, perché mutano sia il paradigma tipico del fattore di aggressione (non più fenomeni di natura antropologica), sia la percezione degli effetti di tale aggressione (un pericolo biologico “interclassista e democratico” che pervade l’intera comunità internazionale). E a determinare la metamorfosi del paradigma questa volta non è tanto l’evento straordinario in sé, checché se ne dica del tutto simile ad altri già sperimentati nel corso della storia anche recente, ma la reazione che a livello istituzionale e sociale ha suscitato, trasformando un’ordinaria emergenza sanitaria in quello che uno dei miei immaginari visitatori, Carl Schmitt, definiva uno “stato d’eccezione”, per fondare la sua teoria della sovranità. Lo “stato d’eccezione”, nella peculiare visione di questo grande intellettuale del ‘900, integrando il presupposto “politico-istituzionale” per stabilire a chi “competa” la decisione ultimativa, consente di stabilire chi sia il “sovrano”, indicandone nel contempo i caratteri ontocratici. Il sovrano è tale perché decide nello Stato d’eccezione e la sovranità, senza questo presupposto legittimante, resterebbe un attribuito vuoto ed astratto, difficilmente denotabile. A ben vedere, questo tempo che nella quasi generale inconsapevolezza stiamo vivendo, sospeso non solo nella sua dimensione esistenziale, ma anche in quella politico-istituzionale dell’integrità dell’ordinamento giuridico, è un tempo che costituisce paradigma e figura dei tanti drammatici spartiacque cui la storia ha destinato le fragili democrazie. Non si tratta di voler rappresentare un’interpretazione a tutti i costi pessimistica dei precedenti storici (Repubblica di Weimar “in primis”), ma di saper cogliere appieno le analogie strutturali e concettuali che quei precedenti evidenziano rispetto alla situazione presente. Volendo valorizzare il profilo fenomenologico della teoria della sovranità di Carl Schmitt, non certo quello strettamente politico-effettuale, non si può non constatare come, nel corso di questa emergenza, l’atteggiarsi concreto delle varie istituzioni implicate, la qualità della normazione prodotta, persino la forte valenza simbolica del linguaggio e della narrazione adottati dai pubblici poteri, evochino una situazione tipica dello “stato d’eccezione”. L’ordinamento giuridico costituzionale viene sospeso, decomposto e rimodulato in funzione di un nuovo ordine in cui il più classico e cogente “ircocervo” giuridico, un concetto per metà assiologico e per metà biologico, quello della salute, viene posto a fondamento, giustificazione, fine e misura di qualunque restrizione il “sovrano” intenda arbitrariamente introdurre.
Non è certo questa la sede per un’analitica disamina dei profili strettamente tecnico-normativi del fenomeno, ma basti dire che quello che dovrebbe costituire il presidio formale affinché il principio costituzionale della riserva di legge in tema di limitazioni della libertà personale venga rispettato, è un decreto-legge, successivamente convertito in legge, che contiene disposizioni assolutamente vaghe e generiche, sia sotto il profilo delle rispettive competenze a provvedere, sia con riguardo alla tassativa indicazione delle modalità di compressione di un diritto del calibro di quello della libertà personale. E il risultato di una copertura legislativa tanto vaga è la proliferazione di una serie di fonti secondarie attuative, spesso tra loro contrastanti, a disciplinare uno dei diritti cardine di un assetto democratico. Quanto tutto ciò sia compatibile con il nostro ordinamento costituzionale è questione che solo il passare del tempo potrà consentire di inquadrare con i giusti filtri ermeneutici, giacché oggi, sull’onda dell’emotività e, talora, di una vera e propria psicosi, prevalgono pulsioni assiologicamente totalitarie ed eccessivamente semplificative. La pluralità e la contraddittorietà delle fonti attuative secondarie rappresenta, in realtà, la cifra differenziale di questo nostro sovrano odierno, che non si manifesta più come un organo monocratico, o comunque come un’istanza decisionale unitaria e coerente, alla stregua di quelli classici, ma si manifesta come un sovrano “diffuso”, disseminato in una pletora di istanze decisionali talora in aperto conflitto interpretativo tra loro, secondo la migliore e più avanzata espressione del “babelismo” postmoderno. Presidenza del Consiglio, singoli ministri, presidenti di Regione, sindaci, organi tecnocratici di ausilio governativo (Protezione Civile, I.S.S., prefetti, forze di Polizia), persino i protagonisti del circuito mediatico: tutti rappresentano, indistintamente, irrelati centri di potere decisionale i quali, chi con il proprio editto pretorio territoriale, chi con un suo “vademecum” comportamentale esplicativo/precettivo, inastando il vessillo valoriale del bene supremo della salute, esercitano a loro modo la sovranità nel presente stato d’eccezione, in una caleidoscopica danza di interpretazioni intorno al simulacro agonizzante del diritto di libertà. E in questa fiera delle decisioni sembra vacillare anche il più scomodo dei pilastri dello Stato di diritto: il principio di separazione dei poteri. Si afferma, sempre da più parti, l’idea che l’efficacia delle misure imposte dal “sovrano” non debba tollerare l’intralcio di un controllo giurisdizionale pervasivo ed effettivo, il quale, tuttavia, pur resistendo allo stato di mera possibilità formale, tende sempre più a trasformarsi, da verifica sulla legittimità dell’operato dei pubblici poteri, in supporto dell’azione repressiva per chi viola le disposizioni rigoriste. Emblematica, sotto questo profilo, la motivazione dell’Ordinanza con la quale il T.A.R. Campania ha respinto l’istanza cautelare di un cittadino che contestava le disposizioni particolari emanate dal Presidente di quella Regione, in quanto più restrittive rispetto alle disposizioni emanate dal Governo, in tema di libertà di esercizio dell’attività motoria. Ciò che colpisce di questa succinta, ma categorica, decisione, e che conferma le divisate preoccupazioni per la tenuta istituzionale, è la totale mancanza di qualsivoglia motivazione sull’unico punto che una decisione fondata su canoni realmente giuridici, non condizionati dalle briglie valoriali dello stato d’eccezione, avrebbe dovuto prendere in considerazione: la ragionevolezza in funzione dell’efficacia in concreto dell’imposizione di misure più restrittive rispetto a quelle ritenute idonee dal Governo, e quindi valevoli su tutto il territorio nazionale, in relazione alla specificità del territorio campano. Invece, l’opzione interpretativa prescelta si è focalizzata esclusivamente sul diritto incontestabile del potere locale, dato l’ovvio e scontato presupposto dell’accertato aumento dei contagi, di fronteggiare l’emergenza anche con ulteriore appesantimento delle condizioni di isolamento dei cittadini, peraltro bizzarramente definito: “limitata compressione della situazione azionata”. Questa pronuncia dimostra, da un lato, con quanta superficialità anche gli organi di garanzia giurisdizionale trattino ormai i diritti fondamentali di rilevanza costituzionale nel contesto d’eccezione, dall’altro che anche le pronuncie giurisdizionali concorrano al consolidamento dell’istanza decisionale sovrana, offrendo modelli standardizzati di legittimazione. Non è, infatti, difficile riscontrare come la motivazione in questione sia perfettamente adattabile e replicabile in qualunque altra situazione si presenti con le stesse generiche ed inevitabili caratteristiche, su tutto il territorio nazionale.
Sia chiaro, non è certamente in discussione la bontà del movente che, nella presente contingenza, anima ogni singolo protagonista dell’attuale esercizio di sovranità diffusa, ma il prodotto istituzionale che ne deriva è qualcosa che, in proiezione futura, dovrebbe allarmare tutti per la sua portata eversiva del sistema ordinamentale e rispetto a cui non si assiste, invece, ad un’adeguata presa di coscienza. Quando questo particolare stato d’eccezione sarà solo un ricordo, la forma, il “pacchetto” giuridico teorico predisposto per farvi fronte rimarrà, tuttavia, assolutamente intatto, con tutte le sue perniciose potenzialità espansive, a disposizione del nuovo sovrano. Sarà sufficiente un’abile sostituzione del sostrato valoriale di riferimento, non più in quel caso la tutela della salute, ma, per esempio, quella dell’integrità culturale della nazione, o la volontà del popolo espressa dal suo capo carismatico, per legittimare la piena potestà decisionale dei futuri tutori del nuovo ordine.
Di fronte, pertanto, ai rischi di una tale prospettiva, mi conforta la presenza del secondo visitatore al quale sopra accennavo, quel Kelsen il cui pensiero, uscito politicamente sconfitto da analoga tragica disputa negli anni ‘30 del secolo scorso, rappresenta comunque il più valido argine spirituale alle avventure decisioniste. Ciò nella misura in cui questo straordinario pensatore relativizza – uso l’espressione in senso a sua volta relativo, e con grande cautela – la valenza tirannica dei valori, a beneficio di un assetto ordinamentale puro, ma pur sempre valido ed efficace anche nella temperie della situazione d’eccezione, in quanto privo di connotati personalistici. È vero, coglieva senz’altro nel segno Carl Schmitt quando, proprio a Kelsen, rimproverava la teorizzazione di un sistema astratto, in cui lo Stato coincide con un ordinamento giuridico strutturalmente vacuo e suscettibile di “abusivo riempimento” con qualunque istanza valoriale, anche, in ipotesi, con un’istanza di natura criminosa. Ma, sebbene il rischio che la purezza logico-normativa trasformi, per eterogenesi dei fini, il sistema giuridico nella sua negazione sia un rischio insito in qualunque prodotto logico dello spirito umano, tuttavia la peculiarità del sistema kelseniano è quella di affermare il primato del giuridico in sé, sempre e ad ogni costo, sia rispetto alla forza bruta dei condizionamenti sociali eccezionali sia, sotto altro significativo profilo, rispetto al rischio di contaminazione e di soggezione ad istanze valoriali imposte di volta in volta come assolute. Ciò in quanto l’operazione giusfilosofica più pericolosa, per le sue tragiche conseguenze sul piano storico-politico, è sempre stata quella di innestare istanze valoriali totalitarie e presuntivamente oggettive su un impianto giuridico formalmente positivo; in altri termini, la pretesa di conciliare il formalismo morale kantiano, nella sua declinazione giuridica, con l’oggettivismo dell’etica materiale dei valori di Max Scheler. Tale operazione, ardita sul piano speculativo, si è sempre dimostrata esiziale su quello politico.
Non sono, dunque, mai ammissibili nell’“apollineo” sistema kelseniano, sospensioni e/o interruzioni dell’ordinamento giuridico, perché l’ordinamento giuridico non può essere sospeso per nessun motivo senza che, per il cennato principio di equivalenza, venga sospeso lo Stato stesso. Ma soprattutto perché, ammonisce Kelsen, ed è questa la principale lezione da trarre per il futuro, non si deve mai superare quella sottile linea di confine che trasforma il senso, ed il consenso, oggettivo che rende una norma valida e vincolante per tutti, nella sua degenerazione soggettiva, nell’arbitrio di un sovrano che, quasi sempre col pretesto di interpretare un’istanza valoriale preminente, emani ordini a suo insindacabile piacimento; esattamente ciò che sta avvenendo in questo drammatico momento. Certo, per mitigare un po’ i rigori del Kelsen giurista puro, neo-kantiano e quindi eccessivamente formalista, è necessario anche attingere al Kelsen filosofo della politica, ma, del resto, nessuna buona teoria giuridica ordinamentale potrebbe reggersi senza il sostegno di una buona riflessione filosofico-politica.
Purtroppo molti oggi, ritenendo, con metafora di fin troppo inquietante attualità, che il nostro sistema giuridico sia comunque difeso da idonei anticorpi, tali da contenere le derive sovraniste di uno stato d’eccezione, nutrono l’illusione che, in fondo, si tratti di una più che giustificata sospensione temporanea di diritti certamente fondamentali, ma comunque subordinati e cedevoli, e che al ripristino della normalità sanitaria anche la normalità giuridica si riespanderà pienamente ed automaticamente. Sono fermamente convinto, per le ragioni che ho sopra esposto, che si tratti solo di una pia illusione, dato che, nella storia, ogni significativo arretramento, o compromesso, sul piano dei diritti fondamentali ha sempre richiesto tempi lunghi o fattori traumatici di ripristino, proprio per la scarsa capacità di adattamento degli ordinamenti democratici a tollerare sospensioni o, peggio, fratture.
Nei confronti di chi agita valori assoluti, e non accetta neppure il contraddittorio sul loro concreto atteggiarsi, sui loro possibili limiti, sulla ragionevolezza del loro bilanciamento e sulla loro corretta interpretazione, mi conforta ancora una volta la visita, ricevuta nel corso dei miei arresti domiciliari, di Hans Kelsen. In un saggio fondamentale per la comprensione dei meccanismi della democrazia e, più in generale, della stessa esistenza umana, Kelsen analizza la contrapposizione tra assolutismo e relativismo, in diritto come in filosofia. Rievocando il processo a Gesù, nella narrazione che ne fa il Vangelo di Matteo (Cap. XVIII), stigmatizza la domanda, “Quid est veritas”, che lo scettico Pilato pone ad un Gesù tanto sicuro della propria, assoluta, legittimazione trascendente. La procedura democratica plebiscitaria che successivamente attiva il relativista Pilato per stabilire la colpevolezza di Gesù cede credibilità alla considerazione che il prescelto dal popolo, Barabba, fosse un ladro. E questa, sottolinea Kelsen, sarebbe una formidabile obiezione contro i principi della democrazia; ma, anch’egli relativista, aggiunge che si tratta di un argomento che dev’essere accettato solo a condizione “di essere così sicuri della nostra verità politica da imporla, se necessario, col il sangue e con le lacrime, di essere così sicuri della nostra verità come lo era, della sua, il Figlio di Dio.”
Ed allora, mutuando questi forti principi, mi chiedo se chi oggi assolutizza un concetto-valore di per sé molto ambiguo, come il concetto di salute, sia davvero così sicuro della sua verità come lo era il Figlio di Dio, e soprattutto se ritenga davvero che, per affermare questa verità, valga la pena di mettere anche solo in discussione, se non addirittura di sospendere, i principi dello Stato di diritto.
Massimiliano Siddi è magistrato dal 1997 ed è attualmente Sostituto Procuratore della Repubblica di Viterbo

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