Anche a scuola there is no such thing as a free lunch

Anche a scuola there is no such thing as a free lunch

Portarsi il pranzo da casa e rinunciare alla mensa scolastica è un problema giuridico? E in che misura sostenere che lo sia costituisce una limitazione della libertà individuale? Il dibattito inaugurato a fine luglio sulle colonne de Il Foglio

ha offerto un’interpretazione soltanto parziale delle questioni che emergono dalla recente sentenza n. 20504/2019, con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha negato che i genitori degli alunni delle scuole elementari e medie inferiori, anziché iscrivere i propri figli alla mensa scolastica, vantino un diritto soggettivo incondizionato a dotarli di un pasto domestico da consumare negli ambienti scolastici. Secondo i più accesi critici della decisione, lo Stato starebbe vietando agli studenti di nutrirsi come meglio desiderano e avrebbe loro imposto in via esclusiva il cibo della refezione, sempre più caro e di qualità scadente. In particolare, l’enfasi è posta su quella parte conclusiva della sentenza, in base alla quale «l’istituzione scolastica non è il luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni, né il rapporto con l’utenza è connotato in termini puramente negoziali, ma è il luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità, come interpretati dall’istituzione scolastica». Da questa conclusione si trarrebbe, insomma, l’affermazione della prevalenza dell’elemento collettivo su quello individuale, che sarebbe confermata, del resto, anche dalla presunta soluzione al problema offerta dalla Suprema Corte, ossia che ciascun istituto scolastico (e non ciascuna famiglia), sulla base della propria autonomia organizzativa, decida come disciplinare il cd. tempo mensa e, quindi, le abitudini alimentari degli studenti.

In realtà, a partire da una questione piuttosto minuta, la sentenza stabilisce alcuni punti fermi nei rapporti tra genitori e istituzioni scolastiche che non necessariamente sono dettati da un’ideologia collettivista, ma, anzi, rispondono a principi di responsabilità, tipici di una società liberale. In primis, occorre sottolineare che la premessa dalla quale muovono i genitori e non la sola Cassazione è che il cd. tempo mensa sia parte del cd. tempo scuola, tesi interpretativa non così pacifica, ma essenziale per capire quali sono le posizioni in gioco. Questo significa che il momento dedicato alla refezione viene considerato anche dai ricorrenti un momento di pubblica istruzione e non un momento “libero” a essa estraneo. Inquadrando la refezione come momento formativo di socializzazione e condivisione rientrante nell’istruzione pubblica, i genitori – a loro dire – rivendicavano il riconoscimento di un diritto di libertà, ossia del diritto all’autorefezione individuale. Ma, in realtà, come evidenziato dalla Cassazione, ad essere da loro invocato era l’art. 34 della Costituzione nella parte in cui riconosce l’istruzione inferiore come gratuita. Essi pretendevano, cioè, che tale diritto all’autorefezione si esercitasse in maniera tale da tenerli indenni da qualsiasi costo, visto che, una volta rifiutata la mensa, essi non avrebbero certo inteso pagare null’altro all’istituzione scolastica. Ciò che veniva invocato non era quindi un diritto di libertà, bensì un diritto sociale per la cui realizzazione è richiesto l’intervento pubblico e non l’astensione dello Stato. L’obiettivo era, quindi, dotare i figli di un pasto domestico ed esternalizzare i costi in capo ai contribuenti per consentirne l’esercizio in uno spazio collettivo. Un’ipotesi di free riding bella e buona, come chi scrive aveva già cercato di mettere in luce in un saggio pubblicato nel 2017 dall’Osservatorio dell’Associazione Italiana Costituzionalisti (AIC) con un titolo assai evocativo: “There is no such thing as a free lunch”.

Ma quali sarebbero, per così dire, “le perdite” che i genitori vorrebbero socializzare per poter trattenere per sé stessi soltanto “i profitti”? Come è noto, l’organizzazione di un qualsiasi servizio (di refezione) è costosa: va verificata l’adeguatezza degli spazi, la disponibilità di personale per la vigilanza e per la pulizia, nonché la presenza di strumenti di refrigerazione o riscaldamento dei cibi. Si dirà: se i bambini che usufruiscono del pasto domestico mangiano accanto ai compagni in mensa, i costi vengono internalizzati e il problema in concreto proprio non si pone. Già, ma la possibilità che due servizi diversi vengano erogati contemporaneamente, uno a spese dell’altro, di problemi, invece, ne pone eccome. Innanzitutto di contaminazione di pietanze (tra cibi controllati e cibi non controllati) con eventuali profili di responsabilità civile non meglio delineati e tutti da accertare. Ma, soprattutto, occorre ricordare come le cooperative che ottengono l’appalto della refezione scolastica svolgano un servizio dettagliatamente disciplinato da un capitolato, in base al quale il personale non può che essere responsabile se non nei confronti di chi consuma il cibo offerto dalla cooperativa. Sarebbe, altrimenti, come decidere di organizzare quotidianamente un meraviglioso pic-nic gratuito sulla terrazza di un ristorante e pretendere che il personale dello stesso si incarichi di farci spazio e di pulire dopo che ce ne siamo andati. Non funziona così ed è inutile prendersela con la lobby dei ristoranti, se ci viene opposto un secco rifiuto! Se scegliamo il ristorante decidiamo consapevolmente di selezionare un piatto dal menù, altrimenti non andiamo al ristorante, ma restiamo a casa. Lo stesso principio – ricorda perentoria la Cassazione – si applica una volta optato per il tempo pieno. Le famiglie hanno, infatti, esercitato la loro libertà di scelta educativa, quella per il tempo pieno, un’offerta formativa che contempla anche il servizio mensa. Il pacchetto, per così dire, si acquista insieme e non è l’utente a decidere unilateralmente che cosa prendere e che cosa lasciare (se al ristorante non c’è la carne cruda tra gli antipasti non posso imporla allo chef, così come in hotel non posso avere la spa, se la struttura offre solo la piscina). Il punto è, quindi, che il menù, ossia la legislazione italiana, non prevede che al tempo pieno possa coincidere un tempo mensa organizzato diversamente rispetto al servizio di refezione o, quantomeno, prevede soltanto che siano le istituzioni scolastiche, nell’ambito della loro autonomia organizzativa, a dover decidere di accompagnare il servizio mensa con un altro servizio.

E allora agli utenti non resta che prendere ciò che passa al convento? Non esattamente. Innanzitutto, è sempre possibile l’opting out. Pur aderendo al tempo pieno, è pur sempre consentito prelevare da scuola i propri figli e dar loro da mangiare come si desidera (magari anche organizzando i loro pranzi comuni in una trattoria dell’angolo, come capitato in un istituto del torinese tempo fa), sicché la refezione scolastica non è affatto obbligatoria come si è letto in giro, pena – in questo caso sì! – la violazione del diritto dei genitori all’educazione dei propri figli. In alternativa, per chi decide di aderire al servizio mensa, l’ordinamento mette a disposizione una serie di strumenti partecipativi (le Commissioni mensa, ad esempio) attraverso i quali i genitori potranno influire sulle modalità di gestione del servizio. All’esito di tale procedimento, nell’ambito del quale si terrà conto degli spazi e dei costi di una diversa organizzazione, la singola scuola potrà, ma non sarà obbligata, a garantire il consumo del pasto domestico. Ciò che la Cassazione nega è, quindi, il diritto dei genitori di imporre l’organizzazione del servizio scolastico che più loro piace o fa comodo. La concorrenza, invece, si esercita tra scuole o meglio tra le diverse offerte formative disponibili e non all’interno di un singolo istituto scolastico, il quale non potrà essere obbligato ad adottare un certo tipo di sussidiario piuttosto che un altro, una diversa organizzazione dei corsi di recupero o una programmazione didattica che preveda più ore di educazione fisica piuttosto che di italiano. Così vale del resto anche nel settore privato, nel quale, una volta che l’utente abbia optato per un servizio, non potrà vantare il diritto di imporre al gestore una sua particolare erogazione, sicché la litania sul collettivismo, in questo caso, sembra davvero fuori luogo.

Giovanni Boggero (leoniblog.it)

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