Intervista a Roan Johnson” di Giovanni Bogani. Il regista dei “Delitti del BarLume” e della serie “Monterossi” in streaming su Prime.

Intervista a Roan Johnson” di Giovanni Bogani. Il regista dei “Delitti del BarLume” e della serie “Monterossi” in streaming su Prime.

“Finalmente ho capito. Ho capito che cosa devo fare da grande. Ho capito che mi viene meglio fare il regista”. Roan Johnson, cognome inequivocabilmente British ma accento pisano, anima inquieta, racconta e si racconta. Racconta le sue molte anime: studioso di cinema, sceneggiatore, scrittore, regista di film indipendenti e di fiction tv di successo, come “I delitti del BarLume” e, in questi giorni su Prime video, “Monterossi” con Fabrizio Bentivoglio.
Adesso Roan, quarantasette anni il prossimo marzo, ha fatto pace con le sue molte anime. O forse è solo una tregua. Con il suo primo romanzo, “Prove di felicità a Roma Est”, aveva vinto un importante premio letterario: con il secondo aveva rivelato delle nevrosi al cui confronto Woody Allen sembra un dilettante. “Ma ora finalmente ho capito: soffro la solitudine dello scrittore. Lo scrittore è un maratoneta, corre corre da solo, fino allo sfinimento. Il regista gioca a calcio, con un sacco di gente”.
Del resto, il primo film a cui ha partecipato si chiamava, non a caso, “4-4-2”. Lo schema classico del calcio.
“Sì. Era un film a episodi, prodotto da Paolo Virzì: io raccontavo la storia di un vecchio terzo portiere, interpretato da Valerio Mastandrea, che a fine carriera prova a vendersi una partita”.
La sua carriera invece è in continua ascesa. I film, poi il successo del “BarLume” e, ora, quello di “Monterossi”. Un po’ come il titolo di un suo film, “Fino a qui tutto bene”.
“Beh, diciamo che le responsabilità sono cresciute. Ho cominciato con i film indipendenti, con budget piccolissimi. Facevo tutto con poco, come nella ricetta della ‘pasta col nulla’ che Guglielmo Favilla cucinava per i suoi amici, studenti fuori corso. Adesso ‘Monterossi’ è la cosa più grande che mi sia capitata”.
Il suo cognome così britannico le ha mai creato qualche problema? Lei, prima di tutto, si sente inglese o pisano?
“Beh, in Toscana mi sento pisano: quando sono a Roma, divento ‘toscano’, loro non distinguono troppo. Di britannico credo ci sia, in me, un senso dell’ironia, che si mescola bene con l’ironia toscana”.
Che cosa hanno in comune Londra e Pisa, nell’ironia?
“Sia gli inglesi che i toscani hanno un tipo particolare di ironia, che desacralizza. Che butta giù l’autorità, e che non si ferma davanti a niente. Neppure di fronte al massimo del sacro, di fronte alla morte o di fronte a Dio. Non lo fa per violenza o per cattiveria, ma perché – sia in Inghilterra che in Toscana – abbiamo ben presente come tutto sia fragile, soggetto a dissoluzione, a sparire”.
Un’ironia anche spietata.
“Soprattutto verso se stessi. Un’ironia che butta giù tutti gli stereotipi, tutti i falsi miti. Shakespeare riesce a ridere anche della morte di un re, riesce a inserire momenti comici nei momenti più tragici. Ed è la stessa cosa che fanno Monicelli e Risi”.
La commedia all’italiana e Shakespeare si somigliano?
“Beh, Mario Monicelli, toscano di Viareggio, ne ‘La grande guerra’ ti fa ridere fino all’ultimo. E poi, zac!, un evento duro, insostenibile, tragico. Shakespeare e la commedia all’italiana hanno questo in comune: ridi e piangi nella stessa opera”.
Nel suo romanzo autobiografico, “Dovessi ritrovarmi in una selva oscura”, racconta episodi di se stesso senza filtri, quasi senza pietà.
“Sì, a cominciare dalle prime pagine. Racconto ‘la prima terribilità’. Racconto una delle volte in cui ho fatto l’amore con Ottavia, la mia compagna. Una delle volte più belle, la sensazione di stare vicino alla donna più misteriosa e insieme quella che conosci meglio al mondo, quando ritrovarsi è un po’ come incontrarsi per la prima volta”.
E che cosa c’è di terribile?
“Che per resistere e durare più a lungo devo pensare a problemi seri, come il tasso variabile del mutuo che sale, ai soldi per ristrutturare la casa, o se il film che sto scrivendo ha la sottotrama che non funziona, ricordarmi quando quel premio importante che avrebbe messo un bollino di garanzia sulla mia carriera è stato dato all’ultimo minuto a quell’altro regista, quando uno sconosciuto sulla bacheca di un amico parlava di un mio film dicendo che faceva ca…”.
C’è un episodio della sua vita, che lei definisce come “il grande smatto”.
“Cominciò verso le quattro di notte, a Pisa. Il silenzio e la notte attorno a me, la strada sgombra, i primi suoni degli uccelli mattinieri. Guardai quel campanile solo e storto, mi ricordai di quella frase: ‘La torre di Pisa. E se avesse ragione lei?’. E ho pensato a quando, costruendola, si accorsero che non veniva dritta, nel mille e cento e qualcosa. Dovevano dare forfait, tirarla giù. E invece no. Avevano uno sbaglio e sono andati avanti con quello. E quindi l’errore è diventato più giusto della norma. Era il figlio debole e problematico, quello che non ci sta tanto con la testa, e allora diventa genio”.
Era il mondo, con le sue regole, che non era giusto…
“Sì. Ma in realtà era storta una mia passione. Un intrecciare le mani con la ragazza di un mio amico, così raro e sorprendente da diventare un cavatappi che aveva girato a vite per il mio cervello. E non successe niente altro. Perché io la vita riuscivo a osservarla come da uno scoglio si osservano gli altri che si tuffano”.
E poi?
“E poi, nutrito dei miti di Siddharta, di san Francesco che si era denudato e aveva predicato agli uccelli, un giorno a Pistoia blues strappai in mille pezzi patente e carta d’identità, regalai i soldi che avevo in tasca, buttai via maglietta e mutande e camminai nudo come un verme in un campeggio di tremila persone”.
Gli amici la ritrovarono, nel campeggio. Che cosa le dissero?
“Mi dissero: dove vai? E io: altrove. ‘E quando torni?’. E io: ‘all’incirca’…”.
All’incirca, poi ha iniziato a fare cinema.
“Ho iniziato a studiarlo in modo accademico. E poi ho studiato sceneggiatura. Quella impostazione mi è servita: per me, ancora oggi, la sceneggiatura, la ‘storia’ del film, è il suo aspetto più importante. Io, come regista, non cerco mai la bella immagine, ma l’immagine che serve alla storia”.
Per anni, ha tenuto corsi sul cinema.
“Quando mi chiamano per una lezione, dico ancora di sì con entusiasmo. Sono sempre stato scettico sul riuscire ad avere una carriera come regista. Insegnavo cinema alla John Cabot University, a Roma. Stavo per prendere il dottorato, per insegnare fisso lì. Feci tutte le carte, e in quel momento arrivarono le offerte del cinema. Come quando accendi una sigaretta, e passa l’autobus”.
Ha anche diretto gli ultimi due episodi tratti da Andrea Camilleri, “La stagione della caccia” e “La concessione del telefono”. Ha avuto modo di incontrare Camilleri?
“Per fortuna sì. Quando andai per la prima volta a casa sua, il produttore Carlo Degli Esposti – un ‘duro’, uno che non si emoziona mai – era pallido come uno straccio. Temeva che non piacessi a Camilleri: ‘mi raccomando, non chiamarlo Camilleri. E nemmeno Andrea. E nemmeno professore. E nemmeno maestro! Ah, non dire mai parole inglesi con lui…!’. Ero terrorizzato anche io. Per fortuna ci piacemmo molto, e lavorammo un anno e mezzo insieme”.
Che tipo di regista ritiene di essere?
“Il mio re e la mia regina sono la storia e i personaggi”.
E con i personaggi, gli attori. Filippo Timi è un fuoriclasse non sempre prevedibile. Com’è andata questa estate?
“Filippo è nel suo periodo migliore, di tutta la sua vita, personale e artistica. È la versione migliore di se stesso. La scorsa estate, all’isola d’Elba, è stato meraviglioso girare con lui. Il regista fa l’allenatore, ma poi in campo, nel film, ci devono andare i giocatori. Ed è bello giocare tutti insieme”.
Le piace l’atmosfera del set?
“Da morire. Mi piace, per citare un altro toscano, Sandro Veronesi, il caos calmo che c’è in ogni set. E anche dopo, se possibile, si gioca insieme”.
Per esempio?
“Prima della pandemia, le puntate del ‘BarLume’ le vedevamo tutti insieme, ogni anno, e ridevamo come pazzi. Ogni attore ricordava qualche episodio accaduto fuori campo, era come una visione davvero speciale. A ottant’anni prenderò tutti i ‘Barlumi’, li metterò su dei dvd, e li vedrò come i filmini delle vacanze di quando ero giovane”.
Lavorare con Fabrizio Bentivoglio come è stato?
“E’ venuto in mente a me. Sapevo che non avremmo mai trovato nessuno così bravo: è un po’ più avanti con l’età del personaggio ‘sulla carta’. Ma alla fine, dato che il vero tema della serie è la malinconia, era molto meglio così. Bentivoglio è pazzesco: non scorda mai una battuta, non scorda mai il millimetro esatto dove deve trovarsi. Lui, fra gli attori, è Cristiano Ronaldo”.
E’ juventino, Roan?
“Juventino. E pisano. È grave?”.
Faccia lei. Posso cambiare il paragone con Ronaldo e mettere uno a scelta fra Ibrahimovic, Messi, Mbappé e Neymar?
“Va bene. Però resto pisano. Su quello c’è poco da fare”.
Giovanni Bogani -tratta da “QN – Quotidiano nazionale”

 

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