A Roma manca un Macron
Le sorti della guerra in Ucraina sono, per certi versi, nelle mani dei francesi. Se domenica 24 aprile il ballottaggio per le presidenziali transalpine dovesse portare all’Eliseo Marine Le Pen – cosa oggi più possibile, o se si vuole meno improbabile, di quanto non lo fu nel 2017 – Putin ne trarrebbe un enorme giovamento, e con lui l’aggressione russa a Kiev e, soprattutto, la sua politica imperialista attraverso la quale vorrebbe ridisegnare la mappa geopolitica del mondo. Se invece a prevalere fosse ancora una volta Emmanuel Macron, ne uscirebbe rafforzata l’Europa, l’Alleanza Atlantica e la Nato e il loro essere coalizione occidentale eretta a barriera contro l’espansionismo di Mosca e lo spostamento degli equilibri mondiali verso un inedito asse euro-asiatico. Ma i francesi voteranno avendo in mente questo scenario e se sì, siamo sicuri che prediligano le seconde conseguenze rispetto alle prime?
A giudicare dall’esito del primo turno – domenica scorsa, quarantacinquesimo giorno dall’inizio dell’invasione russa – c’è da temere il peggio. Se infatti si accantonano per un momento le ragioni identitarie che collocano il voto lungo l’asse tradizionale destra-sinistra, e lo si guarda inquadrandolo nello schema “sistema e anti-sistema”, o “pro e anti establishment”, se ne ricava che pur essendo Macron avanti di 5 punti rispetto alla leader del Rassemblement National (già Front National), a vincere il primo turno è stato il radicalismo populista, che direttamente (legami, finanziamenti, simpatie) o indirettamente (sovranismo anti-europeo e terzomondismo) milita a favore di Putin. Naturalmente questo risultato lo si ottiene sommando il radicalismo di destra (Le Pen 23%, Éric Zemmour 7% e il sovranista gollista Dupont-Aignan 2%) e quello di sinistra (Jean-Luc Mélenchon 22%), che insieme sono stati scelti da oltre la metà dei francesi che si sono recati alle urne (se si aggiunge anche il 3% del populista simil-grillino idolo delle platee rurali, Jean Lassalle, si arriva al 57%). Ma francamente, a giudicare da programmi e linguaggi, le vecchie differenze paiono meno significative delle nuove assonanze. Tanto che sono in molti a domandarsi se sarà davvero ascoltato, e come, l’appello del leader di France Insoumise di non dare neanche un solo voto a Marine Le Pen. Perché, in fondo, come spiega bene Marco Tarchi sul Domani, il bipopulismo d’oltralpe ha pescato nei medesimi bacini elettorali.
Da un lato, è stato premiato dalla Francia “periferica”, dove prevalgono l’ostilità verso l’immigrazione (e quindi, chissenefrega degli ucraini) e l’attaccamento all’identità nazionale, rispetto a quella “metropolitana”. La quale si ritrova invece nelle parole d’ordine del cosmopolitismo e del progressismo. E ha votato Macron o le altre forze minori del fronte repubblicano. Non è un caso che Le Pen abbia prevalso in oltre 20mila comuni sui 35mila in cui è articolato il decentramento francese, mentre Macron non è arrivato a 12mila. Dall’altro lato, è la Francia che “sta in basso” (operai, contadini, impiegati, piccoli commercianti) ad aver premiato le forze anti-sistema, in contrapposizione a “chi sta in alto” (ceti abbienti, borghesia intellettuale e imprenditoriale).
Ora si tratta di vedere quale effetto questa frattura sociale produrrà nel ballottaggio, se cioè la convention ad excludendum che per decenni ha impedito all’estrema destra di arrivare all’Eliseo reggerà, favorendo Macron (nell’ultimo sondaggio, Ipsos lo da al 55%, contro il 45% di Le Pen, e dieci punti di distacco sono tanti), o se questa storica barriera verrà travolta. D’altra parte, se mancano precedenti per quanto riguarda l’affermazione della destra, non mancano per quanto riguarda chi al primo turno era arrivato dietro e poi ha vinto al ballottaggio. Nella V Repubblica è capitato in ben tre circostanze: una volta per uno si sono sorpassati Valéry Giscard d’Estaing e François Mitterand, nel 1974 e nel 1981, e nel 1995 Lionel Jospin fu scavalcato da Jacques Chirac.
Ma Mosca non è l’unica a guardare a Parigi, con un mix di apprensione e speranza. Ovviamente anche tutte le cancellerie europee e Bruxelles osservano le presidenziali francesi, ben sapendo che una vittoria di Le Pen, oltre a incidere sulla compattezza europea e occidentale rispetto a Putin, farebbe segnare una grave battuta d’arresto al processo di integrazione continentale, proprio ora che sotto la spinta della guerra in Ucraina i dossier della “difesa unica” e della “interdipendenza energetica” spingono nella direzione opposta. E c’è Roma, che pur infilata in una crisi di governo strisciante e non dichiarabile, ha un occhio rivolto all’esito del ballottaggio come ennesima occasione di divisione interna. Lo è per il centro-destra, visto che Salvini tifa apertamente Le Pen nonostante avrebbe più motivi di farlo Giorgia Meloni, mentre Berlusconi, pur essendosi fin qui astenuto dal fare dichiarazioni, è con tutta evidenza sulle posizioni di Macron. Quanto al Pd, mentre avrebbe potuto dividersi al primo turno – c’è da scommettere che non pochi avrebbero scelto Mélenchon – ora è ovvio che al ballottaggio si ricompatta su Macron (il quale, contrariamente a Letta che ha stretto un rapporto incestuoso con il populista Conte, non si sogna di stringere alcun patto con il capo della gauche).
Ma è l’intreccio tra Parigi e Mosca che si riflette in modo ancora più dirompente sulla politica italiana. Riesumando la vecchia alleanza gialloverde, Salvini e Conte di fatto hanno posizioni filo-putiniane, pur mascherate dietro il paravento di un generico pacifismo, e dunque finiscono per sperare che Macron perda – il segretario della Lega apertamente, visto che i suoi eletti a Bruxelles sono nello stesso gruppo di Marine Le Pen, il capo del movimento 5stelle in modo più cauto ma altrettanto evidente – rendendo la vita più semplice allo zar moscovita. Naturalmente i due parlano un linguaggio diverso, ma la sostanza è la stessa: Salvini spera che una vittoria della destra francese gli assicuri quella dimensione internazionale che non è riuscito ad avere neppure quando era ministro – a mio avviso sbagliando, perché credo che solo una parte minoritaria dell’elettorato leghista se votasse in Francia darebbe il consenso a Le Pen – mentre Conte, che pure è anche attratto dal populismo di sinistra di Mélenchon, da un lato trova che il Rassemblement faccia leva sul malcontento diffuso esattamente come il grillismo dei tempi del vaffa, con ciò sperando di ritrovarne la vena elettorale perduta, e dall’altro che il rapporto di Le Pen con Putin possa un domani assicurare uno strapuntino anche a lui.
Tuttavia, il messaggio che dal 2017 è venuto dalla politica francese a quella italiana, e rimasto del tutto inascoltato, è quello relativo allo spazio liberal-riformista che a Parigi ha riempito, politicamente ed elettoralmente, En Marche, il partito di Macron. Come ha ben scritto Stefano Folli, l’unico omologo italiano è Renzi, o meglio sarebbe stato lui se non avesse maldestramente perso la sua scommessa politica. Così, con Renzi che ha buttato alle ortiche il suo indubbio talento e con gli altri partitini meritoriamente fuori dal bipopulismo nostrano ma incapaci di andare oltre qualche personalismo, che non rappresentano un’offerta politica forte e convincente come lo è stata – e speriamo lo sia anche domenica 24 aprile – quella di Macron, nella politica italiana resta un buco clamoroso. Vuoto che costringe il Pd a non rinunciare al minotauro Conte (mezzo Mélenchon e mezzo Le Pen) e che tiene insieme il pur scollato centro-destra, inducendo l’inedito duo Letta-Meloni a ergersi a paladini della rinascita del bipolarismo, che avrebbe in loro due i rappresentanti della sinistra e della destra e negli altri dei gregari utili solo ai fini elettorali. Ma il sistema parlamentare italiano non è quello semipresidenziale francese, e comunque il bipopulismo transalpino finora è stato battuto, grazie alla legge elettorale a doppio turno, dal liberal-riformismo di Macron. Cioè da una figura politica che, come detto, purtroppo manca in Italia.
Avrebbe potuto e potrebbe ancora esserlo Draghi, il Macron italiano? Teoricamente sì, praticamente no. È ormai chiaro che, specie dopo la vicenda Quirinale, l’ex banchiere non abbia alcuna intenzione non dico di scendere nell’agone politico – opzione che non è mai esistita – ma neppure di favorire, da presidente del Consiglio, l’evoluzione del sistema politico italiano. Quando chiuderà la sua esperienza a palazzo Chigi – che sia a scadenza naturale (marzo 2023), o che sia anticipatamente (settembre), cosa sempre più probabile – Draghi non sarà più disponibile per alcuna esperienza nazionale. Discuteremo a tempo se e con quale intensità ne sentiremo la mancanza. Di certo ora sentiamo la mancanza di un Macron italiano, e più che mai la sentiremo quando andremo a votare.
Enrico Cisnetto – terzarepubblica.it