
RobotAnti
Avere un certo timore delle cose nuove, incerti sugli effetti che avranno sulla nostra vita produttiva e privata, è comprensibile. Ma senza esagerare. Tanti umori che si coltivano, sui robot o sull’intelligenza artificiale, sono irrazionali. L’idea che la conservazione di un posto di lavoro valga di più del miglioramento della qualità della vita non è di destra o di sinistra, è solo stupida.
In Amazon in dieci anni, fra il 2015 e il 2024, il numero di pacchi spediti per lavoratore è cresciuto di quasi 23 volte. Meno male che ci sono i robot. Quell’azienda, disponendo di più di un milione di lavoratori-macchina, si accinge ad avere più robot che dipendenti umani (che rimangono numerosi). Non è un pericolo, tanto più che molti di quei lavori poi robotizzati (com’era già avvenuto nelle fabbriche d’auto e in mille altri posti) non erano per niente attraenti. Facevano guadagnare uno stipendio, ma correre per magazzini e spostare pacchi non è proprio un ideale di vita.
Ma che succede se il robot ruba posti di lavoro? Succede che migliora la vita e ci si può dedicare ad attività più produttive. Certo che l’agricoltura della zappa aveva bisogno di più lavoratori di quella meccanizzata, ma la seconda genera più ricchezza e soddisfa i bisogni di molte più persone. I lavatoi saranno anche stati luoghi di socialità, ma la lavatrice fu una liberazione. Il problema non è mai l’innovazione, ma la voglia anti robot di preservare l’arretratezza, in quel modo preservando l’ignoranza che genera miseria.
La faccenda dell’intelligenza artificiale che subentra e sottomette quella umana è tanto affascinante quanto vecchia e stravecchia, nonché fuori dalla realtà. Vero che i caratteri mobili rubarono il lavoro agli amanuensi (diffondendo enormemente la cultura), ma nessuna macchina è in grado di produrre componimenti che non siano scopiazzature. Possono fregare lo scopiazzatore umano, i giornalisti dei minestroni d’agenzia, ma non i creatori di opere originali. Non ci riusciranno perché non soffriranno la straziante disperazione indotta dall’abbandono della bella o del bello dagli occhioni dolci (e non impareranno poi che si vive benissimo anche senza), non avranno paura di un rumore dal tetto. Sembrano più forti, le macchine: sono soltanto dotate di una enorme e crescente capacità di calcolo, per il resto sono torsoli.
Piuttosto che coltivare la paura del robot e della macchina calcolante ci si deve preoccupare che la loro diffusione produttiva, in Italia, abbia rallentato. La capacità operativa del fondo dedicato a Transizione 5.0 è inferiore a quella del fondo precedente, il che creerà uno svantaggio competitivo. Tanto più grave essendo l’Italia una produttrice di macchine per la produzione. Dobbiamo preoccuparci non del fatto che i robot avanzino troppo velocemente, ma che siano in parziale frenata.
In quanto ai lavoratori, intesi come umani, il problema è che mancano, non che avanzano. Il recente decreto flussi, per 500mila immigrati in più in tre anni, sappiamo già essere inferiore al bisogno. Senza contare che la disfunzionalità dei click day si presta a raggiri e i tempi di realizzazione superano largamente quelli che dominano la produzione. In altre parole: ne facciamo entrare troppo pochi perdendo troppo tempo. Il che non prosciuga di un ditale l’altro problema, del tutto diverso, dell’immigrazione irregolare. Entro il 2026 un’impresa su tre avrà assunto un nuovo immigrato e soltanto il 3% lo avrà fatto cercando la convenienza economica.
Certo che gli umani vanno tutelati dall’avanzare delle macchine, ma lo si fa istruendoli a crearle, innovarle e utilizzarle. Lasciamo con gioia che la fatica e la ripetitività siano meccanizzate, ma nutriamo la creatività istruita. Che di creatività a vanvera ce n’è già abbastanza. Per il resto, giusto per coltivare l’intelligenza umana, si apprezzino le pagine di Isaac Asimov e Philip K. Dick (ma anche di Luigi Malerba): sono loro i padroni dei pensieri del robot. Bisogna mettersi in gara con loro, non con la lavatrice.
Davide Giacalone – davidegiacalone.it