AirBNB cerca casa

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Firenze e Venezia vanno ad aggiungersi alla lista di città europee che richiederanno al Parlamento europeo una più stringente regolamentazione del sistema degli affitti brevi, per “salvare i centri storici dall’invasione di Airbnb”.

Da quando il servizio di locazioni temporanee dell’azienda californiana è stato lanciato nel 2008, il numero di appartamenti affittati tramite questo sistema è aumentato esponenzialmente (solo in Italia, terzo mercato per Airbnb, ve ne sono più di 400.000).

Andando a insinuarsi in un settore ben consolidato e caratterizzato da un’offerta relativamente rigida, quello alberghiero, già da diversi anni Airbnb e altre piattaforme online sono stati oggetto di numerose critiche, non solo da parte degli albergatori tradizionali, ma anche delle amministrazioni locali.

Infatti, se da un lato hanno consentito di soddisfare una domanda di sistemazioni che altrimenti sarebbe rimasta insoddisfatta e hanno parallelamente permesso di mettere a frutto unità immobiliari sotto-utilizzate, dall’altro hanno sovente determinato un impatto sugli stili di vita delle persone e i valori degli immobili.

Nel 2017, per esempio, il governatore della Toscana Enrico Rossi, in un articolo sul blog dell’Huffington Post, criticava aspramente la gig economy, sostenendo che operatori come Airbnb contribuiscono ad incrementare lo sfruttamento della rendita immobiliare, aumentando i prezzi degli affitti ed il valore degli immobili.

Altre critiche sono arrivate dal sindaco di Barcellona, Ada Colau, secondo cui la diffusione di affitti a breve termine mina la quiete dei residenti, poiché porta ulteriore sovraffollamento e rumore, nonché causando, come sostiene anche Rossi, un generale aumento dei prezzi.

Maggiore sovraffollamento e degrado, assieme ad un lievitare dei prezzi degli immobili e degli affitti, sono quindi i motivi per i quali il sistema degli affitti a breve termine contribuirebbe allo spopolamento dei centri urbani, spingendo i tradizionali abitanti verso le periferie.

L’intuizione economica dietro ai motivi per cui un aumento della presenza di Airbnb in un quartiere dovrebbe portare ad un aumento dei prezzi è abbastanza lineare: riducendo le frizioni nelle transazioni, le piattaforme di home sharing spingono i proprietari di case a spostarsi dal mercato degli affitti a lungo termine a quello degli affitti a breve termine, ovvero da una clientela composta prevalentemente da residenti  a una composta da turisti. Essendo l’offerta di abitazioni nuove fissa o quantomeno inelastica, ciò comporta un calo dell’offerta a fronte di una domanda invariata, da qui l’aumento dei prezzi. Questa analisi tuttavia non tiene in considerazione diversi elementi: In primo luogo le dimensioni del mercato degli affitti a breve termine sono troppo limitate perché un suo incremento possa avere un effetto particolarmente incisivo su quello degli affitti a lungo termine. In secondo luogo, molte delle case affittate su piattaforme come Airbnb sono in realtà case vacanze che non verrebbero comunque utilizzate nel lungo termine. Bisogna infine tenere conto dei casi in cui il proprietario coabita con l’eventuale affittuario oppure affitta la sua casa durante periodi di assenza temporanea.

Tutte queste situazioni, che costituiscono la maggioranza dell’offerta su Airbnb e piattaforme simili, non vanno ad interessare il mercato degli affitti a lungo termine.

Nonostante ciò, da parte di varie città europee continua a pervenire la richiesta di normative più stringenti.

In realtà a molte delle critiche che vengono mosse ad Airbnb, si possono trovare risposte che non comportano necessariamente un sistema di regole asfissiante, che rischierebbe di fare affondare un settore in crescita che sta contribuendo a infondere spirito imprenditoriale e a dare modo a chi possiede un appartamento non utilizzato – anche semplicemente un posto letto – di mettere a rendita la sua proprietà.

Per esempio, sovraffollamento e rumore possono essere contrastati tramite azioni legali già possibili in ogni ordinamento ed è forse una riluttanza a fare applicare le regole esistenti, piuttosto che l’espansione di un sistema di affitti a breve termine, che contribuisce al degrado crescente di molti centri europei.

Abbiamo già riportato una risposta a chi critica l’aumento del valore degli immobili e l’incremento della rendita immobiliare, inoltre dobbiamo considerare le esternalità positive prodotte dallo home sharing, che permette la riqualificazione dei quartieri, e fornisce reddito ai proprietari che può essere reinvestito nella manutenzione e nell’ammodernamento degli immobili.

Diversa è invece l’accusa – mossa soprattutto dalle associazioni di categoria – di operare sostanzialmente una forma di concorrenza sleale, in quanto chi utilizza Airbnb per mettere a disposizione i propri appartamenti privati non è considerato, attualmente, come imprenditore del settore, e dunque non rientra nell’obbligo di sottostare all’insieme di adempimenti richiesti da questo status. Si potrebbe comunque discutere sulla reale comparabilità delle due offerte, quella del soggiorno alberghiero e quella dello home-sharing, che, per quanto organizzata, rimane comunque radicalmente diversa in termini di esperienza e servizi.

Una possibile soluzione potrebbe essere, dunque, una regolamentazione meno invadente e più ponderata, che non applichi ai fornitori di servizi di home-sharing lo stesso quadro di regole applicato agli albergatori, ma ne istituisca ad hoc per questa nuova forma di micro-imprenditoria – per esempio un sistema semplice per gestire il pagamento della tassa di soggiorno – evitando di imbrigliarne la spinta innovativa che, in definitiva, va a beneficio dei consumatori. 

Francesco D’Ignazio (leoniblog.it)

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